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di Gaetano Cellura Da molto tempo il “piccolo” giudice non pensava più al delitto Matteotti. E il rivederne la foto – tra le carte trovate dalla polizia in casa dell’imputato che doveva giudicare: un pluriomicida per il quale, come esemplare punizione, il regime pretendeva la pena di morte – lo riportò con la memoria a quell’estate del 1924 in cui “la sorte del fascismo parve vacillare”. Tanta fu, per l’omicidio del deputato socialista, la commozione, tanto lo sdegno nelle famiglie italiane. Giacomo Matteotti venne ucciso dai sicari del fascismo il 10 giugno di cent’anni fa, probabilmente lo stesso giorno del suo sequestro. E i suoi resti ritrovati due mesi dopo.

Nell’opera di Sciascia, il nome del Martire compare due volte: ne Le parrocchie di Regalpetra e nel romanzo Porte Aperte. Quest’ultimo uno dei più struggenti dello scrittore siciliano. Un romanzo che non è esagerato definire cristiano. Perché ha per tema la pena di morte (in vigore durante il fascismo) e la contrarietà del “piccolo” giudice ad applicarla. Per principio. Per l’idea che lui ha della giustizia, non solo un problema di applicazione della legge, ma “di interiore libertà, comunque dovuta a chi è chiamato a giudicare”. E per avversione al fascismo anche.

Sciascia lo chiama “piccolo” non perché fosse piccolo di statura. Ma per le cose tanto più grandi di lui che si trovò ad affrontare. Da solo e fino a rimetterci, per i propri principi, la carriera. Il regime vedeva nell’applicazione della pena capitale la forza dello Stato. La sicurezza per i cittadini di poter dormire “con le porte aperte” (come allora si diceva e come, dopo la fine del fascismo, i suoi nostalgici amavano ripetere). Di qui le forti pressioni sulla magistratura. Sul giudice che aveva in mano il processo. Ciononostante dalla camera di consiglio uscì per l’imputato pluriomicida una sentenza, di colpevolezza senza dubbio, ma che di morte non era. Il “piccolo” giudice ne aveva fatto un punto d’onore della sua vita, “dell’onore di vivere”.

Ne Le parrocchie di Regalpetra Sciascia parla di Matteotti attraverso i suoi ricordi di bambino. Il ritratto del martire antifascista portato a casa da uno zio dello scrittore e prudentemente dalla famiglia tenuto nascosto nell’armadio per evitare spiacevoli conseguenze. Il futuro scrittore domandava chi era l’uomo nel ritratto. E la zia gli faceva il segno del silenzio. L’ha fatto uccidere quello, diceva piano, e ci penserà il Signore. E quello si capiva chi era.

Nel romanzo Porte Aperte, sull’omicidio di Matteotti, Sciascia lancia en passant un’ipotesi originale: che l’abbiano ucciso non in nome del socialismo ma in nome del Diritto. Del Diritto penale di cui era libero docente. Dedica belle pagine ai funerali del deputato socialista e alla commozione degli italiani che, in quell’estate del 1924, avevano ancora sentimento.

L’articolo completo su instoriarivistaonline.it n. 195 Marzo 2024