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Nuovo-governo-2013-NapolitanoHa molti estimatori in Italia e all’estero, nella politica, nel mondo economico e nel giornalismo. Ma pure i detrattori non gli mancano. Dal 2011, dopo le dimissioni di Berlusconi, è stato lui, “re Giorgio”, il vero capo del governo. Ha dato l’incarico a Monti, poi a Letta e infine a Renzi. Tutti privi d’investitura popolare. E non è cosa di poco conto in una democrazia. Come non è di poco conto che un parlamento eletto con una legge dalla Corte dichiarata anticostituzionale sia rimasto in carica. E come non è di poco conto che l’attuale maggioranza di governo si regga ancora sul Patto del Nazareno, tra Renzi e Berlusconi, di cui ogni cittadino immagina il contenuto ma non lo conosce effettivamente.

Da una classe politica incapace di trovarne il successore, una volta scaduto il suo settennato, Napolitano è stato “costretto” ad accettare – e non era mai successo – un nuovo incarico di Presidente della repubblica. Sino a quando – aveva promesso – le forze glielo avrebbero permesso e si sarebbe normalizzata la situazione del paese. Un paese ancora frammentato, non immune dal populismo (sicuramente più dilagante dopo l’attentato terroristico avvenuto a Parigi), instabile e in condizioni economiche da non offrire garanzie all’Europa. Le sue dimissioni sono attese per il 14 di gennaio. Re Giorgio è stanco. Normale, data l’età. Ma forse ora è davvero certo che le condizioni dell’Italia siano stabili e finalmente sicura la mano di chi la guida.

A noi il paese non sembra granché diverso da quello che lui ha finora “governato”. Le famiglie italiane non ce la facevano prima e non ce la fanno ora. Il lavoro mancava e ancora manca. Le tasse erano elevate e così sono rimaste. L’antipolitica, che lui tanto deplora, non è affatto diminuita.

Giorgio Napolitano ha sempre sostenuto il processo di riforme avviate. Da quelle costituzionali a quelle del lavoro. È stato un presidente che ha unito e un presidente che ha diviso. Per unire tutti e da tutti essere amato avrebbe dovuto fumare la pipa, come uno dei suoi indimenticabili predecessori. Anche lui, come Renzi, è convinto che una politica di sinistra non serve all’Italia. E forse che non le serve più nemmeno una sinistra, benché della sua storia sia sempre figlio. Altrimenti, nei giorni degli scontri sul Jobs Act, una parola a favore dell’articolo 18 l’avrebbe detta. E alla legge Fornero si sarebbe opposto.

(g.c.)