Pubblicità

Non c’è solo l’Ilva di Taranto nell’Italia dei veleni. C’è la ferriera di Servola  a Trieste dove sono stati rilevati emissioni di benzopirene superiori ai livelli consentiti. C’è l’acciaieria ThissenKrupp di Terni dove i timori per una possibile chiusura sono per la verità legati più a ragioni economiche che ambientali. La multinazionale tedesca, che poco in passato ha investito in sicurezza (il caso Torino lo dimostra), non ha invece lesinato investimenti – 20 milioni alla fine degli anni novanta – per migliorare le condizioni ambientali del territorio attraverso nuovi impianti di aspirazione delle polveri sottili emesse dai forni fusori e sistemi di bonifica del suolo e di depurazione delle acque reflue industriali. Lo stesso non si può dire degli stabilimenti Eni di Gela, Milazzo e dell’area Priolo, Melilli, Augusta dove è piena emergenza ambientale per 320 mila persone. È vero che non ci sono ancora sentenze che certificano una qualche relazione tra inquinamento e malattie, malformazioni neonatali e mortalità diffusa nelle città interessate. Ma esistono indagini epidemiologiche e studi in grado di dimostrare come l’allarme a Gela, Milazzo, Priolo, Melilli e Augusta sia tutt’altro che ingiustificato. Molte denunce sono state presentate, e nel 2006 un centinaio di famiglie di ex operai del reparto clorosoda dello stabilimento gelese hanno fatto causa all’Eni. Il caso Ilva ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della compatibilità tra industria e inquinamento. E le ragioni che ne ritardano la soluzione sono quelle indicate dai giudici di Taranto per giustificare la necessaria chiusura dello stabilimento: fatiscenza degli impianti, ritardi burocratici, difficoltà di dialogo tra imprese e amministrazioni locali. E spesso, – aggiungiamo noi – oltre all’esclusivo interesse padronale per i profitti, anche una scarsa coscienza ambientalista da parte di lavoratori, sindacato e politici: sempre pronti a chiudere un occhio, o a chiuderli tutti e due, in cambio di lavoro industriale.