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di Gaetano Cellura Era del 1933 Raul Gardini, e a sessant’anni (ovvero trent’anni fa) si tolse la vita con un colpo di pistola alla testa nel settecentesco palazzo Belgioioso, la sua casa di Milano. Ma secondo alcune fonti i colpi di pistola furono due: il che lascia credere che possa non essersi trattato di suicidio.

Tanto riservato era il suocero, quanto estroverso lui. Nell’azienda di Serafino Ferruzzi entra dopo aver conseguito il diploma all’Istituto Agrario di Cesena. Ne sposa la figlia maggiore, Idina, donna religiosissima, e quando Ferruzzi muore (nel 1979, in un incidente aereo) gli altri figli – Arturo, Franca e Alessandra – delegano a lui, al cognato, la gestione del gruppo.

Alessandra aveva sposato Carlo Sama, altro protagonista di questa storia e dell’Italia di Mani Pulite. I due cognati, al momento decisivo, ruppero i rapporti: “Tra Raul e la famiglia Ferruzzi, scelsi la mia famiglia”– disse Sama al Corriere della Sera. Ma del cognato ha continuato a dire che era uomo straordinario, con una visione chiara del mercato e capace di anticipare i tempi: “Il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative”. Tanto in anticipo che negli anni ottanta Gardini già voleva risolvere il problema degli immigrati. Come? Con un progetto, predisposto da Marco Fortis, per rendere coltivabile la fascia mediterranea del Maghreb. Così, concluse Sama, dall’Africa non sarebbe più partito nessuno.

Raul Gardini cui l’università di Bologna conferirà la laurea honoris causa in agraria trasformò la Ferruzzi in un gruppo industriale sin dall’inizio degli anni ottanta con l’acquisizione di Eridania. Poi puntò sulla chimica e avviò la scalata alla Montedison e alla sua fusione con l’Eni. La prima fase di questa complessa vicenda, la joint venture Enimont, si rivelò così promettente da fargli dire: “La chimica sono io”. Ma le cose si complicarono presto. Sia perché il decreto-legge sugli sgravi fiscali, promessi a Gardini da De Mita e da Occhetto, cioè dalla maggioranza e dall’opposizione, decadde in parlamento due volte; sia per il ricorso dell’Eni, di cui era presidente Gabriele Cagliari. Tre anni dopo finito sotto inchiesta con l’accusa di essersi messo di traverso per favorire il Psi di Craxi che ostacolava l’operazione. Sia infine per le diverse strategie all’interno della famiglia Ferruzzi, che la portò a vendere il proprio 40 per cento all’Eni e a spendere una parte del denaro incassato per le tangenti ai partiti.

Quando a Sama venne chiesto quale bisogno aveva l’Eni di pagare i partiti, lui rispose: “Nessuno. Si pagava perché non rompessero le balle. La politica costa tanto e non mi pareva un peccato aiutarla. Ma si doveva farlo alla luce del sole”.

Per Gardini fu l’inizio della fine. Altre iniziative – la nomina del figlio ventunenne alla presidenza della Ferruzzi Finanziaria e lo spostamento a Parigi delle attività del gruppo – fecero il resto. Il fratello e le altre due sorelle chiesero a Idina la vendita a loro delle sue quote: 503 miliardi di lire. Gardini viene licenziato. Nella sua autobiografia, intitolata A modo mio e pubblicata nel 1991, aveva scritto: “Sto molto attento a non commettere errori di percorso madornali. Soprattutto, non mi precludo mai la strada del ritorno. Cerco sempre di avere lo scenario del possibile, ma anche quello dell’impossibile. Non mi taglio i ponti alle spalle”.

Ma nella vicenda dell’Enimont – pur se è vero che qualcuno di cui si fidava non mantenne con lui le promesse – di errori forse ne commise: e sino al punto di precludersi una via d’uscita. Al Sole 24 Ore scrisse che, quando l’aveva lasciata, la situazione finanziaria della Ferruzzi-Montedison non era compromessa. Ma i debiti del gruppo, la svalutazione a cinque lire delle sue azioni dicevano il contrario.

Chiese al cognato Sama i documenti per potersi difendere. Documenti che non arrivarono mai. Era la stagione di Mani Pulite in cui l’avviso di garanzia significava una condanna: e gli era arrivata – scuotendolo – la notizia del suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, il manager con cui si era scontrato per Enimont. Gli era arrivata anche la notizia che dieci buste gialle con l’intestazione “F” stavano per essere recapitate da un colonnello della Finanza.

L’uomo dalla chiara visione industriale, in anticipo sui tempi, l’uomo di sport che con il Moro di Venezia, barca finanziata dalla Montedison, aveva vinto la Luois Vuitton Cup e ottenuto il secondo posto nella Coppa America, capì che dopo Gabriele Cagliari sarebbe toccato a lui. E non voleva fare la stessa fine: “134 giorni nel canile”, disse Carlo Sama. Che aggiunse: non si uccise per disonore. Gardini aveva il chiodo fisso dell’arresto imminente. “Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa”.