di Gaetano Cellura Dallo scarmigliato bosco cileno – chi non lo conosce, “non conosce il pianeta” – Pablo Neruda è uscito a cantare per il mondo. Nell’anima “il profumo selvaggio dell’alloro, il profumo oscuro del boldo”. Nella mente il ricordo dei capihue rossi che oscillano vibrando; e di una moltitudine di foglie la cui legge è il silenzio. Il capihue rosso è il fiore del sangue; il bianco è il fragile fiore della neve.
Perso nella città e poi nei più variegati e lontani paesi del mondo, la sua Residencia en la Tierra, Neruda ha catturato, bevuto e divorato parole. Le parole lasciate come stalattiti nella sua poesia o “come relitti di naufragio, regali dell’onda”. Le parole della buona lingua ereditata dai biechi conquistatori. Che “si portarono via l’oro e ci lasciarono l’oro”. L’oro delle parole. Quelle del suo libro Espaῆa en el corazón, libro che aveva in tasca, gli vennero in soccorso alla Vega Centrale, il più grande mercato di Santiago, durante una conferenza al sindacato degli scaricatori, categoria tra le più numerose e mal pagate.
Il poeta cileno si ritrovò in una sala sconquassata e fredda di fronte a una platea di persone scalze. E aveva tanta voglia di scappare. Perché non gli era stato detto che a quegli uomini avrebbe dovuto tenere un discorso. Non sapeva cosa dire, cosa della sua vita avrebbe potuto interessarli. Allora prese il libro e cominciò a leggere. E, una poesia dopo l’altra, sentiva il silenzio. Il silenzio “come di acqua profonda” in cui cadevano le sue parole. Poco tempo prima Neruda era stato in Spagna. “Lì c’era molta lotta e molti spari”. La guerra civile. E gli scaricatori del mercato per più di un’ora ascoltarono, commossi, quello che lui aveva scritto in proposito. Ne fu molto contento. Perché la sua poesia era arrivata a destinazione, aveva incontrato il “cuore dell’uomo”.