Sono le ore 12 del 4 novembre 1918 quando il generale Diaz dirama il Bollettino della Vittoria. Che fa seguito all’armistizio di Villa Giusti a Padova fra il Regno d’Italia e l’ormai crollato Impero Austroungarico. La guerra iniziata tre anni prima, l’inutile strage come l’aveva chiamata Benedetto XV è finita. Circa trecentomila prigionieri, cinquemila cannoni, materiali d’ogni sorta, interi magazzini e depositi dell’esercito austriaco vengono lasciati “nelle nostre mani”. A distanza di un anno l’Italia passa da una disfatta subita – quella di Caporetto – a una disfatta inflitta: quest’ultima decisiva per la liberazione di Trento e Trieste e soprattutto per le sorti vittoriose della Prima guerra mondiale.
L’offensiva che conduce a Vittorio Veneto era iniziata il 24 ottobre sul Grappa. L’esercito italiano, riorganizzato da Armando Diaz, non ripete gli errori di un anno prima a Caporetto; e approfitta del mutato stato psicologico delle truppe avversarie, al corrente delle sconfitte sugli altri fronti e di un impero prossimo alla dissoluzione per il quale non vale più la pena combattere.
Ma sul fronte opposto, cent’anni fa, quella italiana fu vera vittoria? Il conflitto, costato seicentomila morti e 148 miliardi, riserva alla fine poche soddisfazioni e molte amarezze. Un clima che alimenta la propaganda nazionalista della guerra vinta e della pace persa. Opportunistica, ma non del tutto infondata. Passata l’esaltazione della vittoria, al tavolo della pace l’Italia si accorge infatti di non essere trattata come potenza vittoriosa. Ma più per la miopia dei propri governanti che per una precisa volontà degli Alleati. Orlando e Sonnino rivendicavano ingrandimenti territoriali (poco credibili) quando al paese servivano aiuti economici per far fronte al suo grave deficit economico e alla grande disoccupazione del dopoguerra. Rubè, il romanzo dello scrittore siciliano Giuseppe Antonio Borgese, è un affresco della condizione morale dei reduci, della loro angoscia umana e di tutte le delusioni, le umiliazioni, i tumulti popolari per le promesse non mantenute dei benefici che la guerra avrebbe portato all’Italia.
Quando Mussolini, dopo la Marcia su Roma, disse a Vittorio Emanuele: “Vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”, probabilmente a questo alludeva: alla nazione dei reduci delusi (e determinati a rifarsi) da come era andato il tavolo della guerra vinta e della pace persa.
Gaetano Cellura