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di Gaetano Cellura “La luna piena riempie i nostri letti,/camminano i muli a dolci ferri/e i cani rosicano gli ossi./Si sente l’asina nel sottoscala,/i suoi brividi, il suo raschiare./In un altro sottoscala/dorme mia madre da sessant’anni”. Sua madre era Francesca Armento, vedova Scotellaro. E il mondo che questi versi lasciano intravvedere l’ha già descritto Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli. Il mondo – di miseria e di malaria – in cui lo scrittore e pittore torinese è stato confinato. Mondo di case in cui convivono persone e animali e dove lui veniva chiamato – lui medico che non aveva mai svolto la professione – per fare le iniezioni agli ammalati con la febbre a quaranta, mentre le galline gli camminano tra i piedi.

In questo 2023 che sta per finire ricorrono i cento anni della nascita e, proprio oggi, i settanta della morte di Rocco Scotellaro, il poeta della libertà contadina come Carlo Levi lo definisce. Scotellaro era un giovane sindaco socialista, sindaco di Tricarico, paesino della Basilicata, la cui carriera politica finì per un complotto dei suoi avversari. Era un giovanissimo poeta che ha cessato di vivere a trent’anni, perché gli si è otturata una vena del cuore. Quel cuore che voleva dare ai poveri. Alla loro causa nel Mezzogiorno d’Italia. Il Mezzogiorno della “Riforma lenta” che ostacola l’autonomia dei contadini. Nelle terre della Riforma Levi fa dei viaggi-inchiesta e ha al proprio fianco il giovane socialista Scotellaro, che lo guida. Forse facendogli leggere qualche suo verso lungo i sentieri da cui “non si torna indietro”: Altre ali fuggiranno/dalle paglie della cova,/perché lungo il perire dei tempi/l’alba è nuova, è nuova”.

Scotellaro ci ha lasciato due libri incompiuti: L’uva puttanella e I contadini. In uno di questi lui parla di sua madre, Francesca Armento. O meglio: è sua madre, nel libro, a parlare di lui. A Rocco lo fecero sindaco a ventitré anni, dice Francesca, perché era intelligente e generoso. I due grandi amici che aveva fecero tanto per lui, quando finì ingiustamente in carcere e durante la malattia. Fecero tanto per lui e non badarono a spese il dottor Carlo Levi e il dottor Rossi Doria, che se lo portò a Napoli, a casa sua. A Napoli per farlo visitare e curare.

Levi fece spostare la causa a Potenza e, dopo quarantacinque giorni di carcere, si scoprì che l’accusa di peculato contro Scotellaro era infondata. Lui era il filo d’erba di una sua poesia (La bella patria), un filo d’erba innocente. Non poteva essere colpevole. A nulla valsero invece le cure, anche perché Rocco non si riguardava, non stava fermo un momento: la politica, la collaborazione con l’economista agrario Rossi Doria, il libro da scrivere, l’impegno preso e da rispettare con Laterza per la sua pubblicazione.

Le terre di cui Scotellaro parla nei suoi libri sono quelle delle piane di Salerno, di Eboli e di Paestum. Dove la vera situazione dell’agricoltura era quella ben rappresentata da Manlio Rossi Doria nel discorso del 1947 al Teatro Stabile di Potenza. Della più dura fatica contadina. Lui era “un filo d’erba che trema”. E la sua Patria stava “dove l’erba trema” e dove sognare un’alba nuova, “lungo il perire dei tempi”.