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pier-paolo-pasolini1È stato tante cose insieme. Poeta, narratore, regista, autore di teatro, saggista “inesauribile”(l’aggettivo è di Alberto Moravia). Odiava il laicismo consumistico dell’Italia paleoindustriale, che aveva cambiato persino la natura dell’operaio. Considerava come formale la democrazia antifascista. E del fascismo continuava a vedere i segni nello “stupido repressivo conformismo di Stato”, nell’omologazione Destra-Sinistra e durante la prima fase del “regime” democristiano. Quella che metaforicamente si conclude, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con la “scomparsa delle lucciole” di un suo famoso articolo pubblicato sul Corriere della Sera di Piero Ottone. Il fenomeno delle lucciole sparite era stato prodotto dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua.

Si era a metà degli anni Settanta e il giornale della borghesia italiana gli aveva aperto addirittura la sua prima pagina. Pier Paolo Pasolini non rimpiangeva propriamente l’Italia agricola e rurale cui l’industrializzazione era stata quasi imposta. “Io un nostalgico? – aveva risposto a Italo Calvino che così l’aveva definito in un’intervista – Ma allora tu non sai niente di me, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto un’inquadratura dei miei film”.

E in realtà la sua polemica (luterana e corsara) non era rimpianto dell’Italia agricola cui comunque si sentiva sentimentalmente legato, ma difesa di un patrimonio di valori di cui il nuovo paese consumistico non sapeva “fare storia” trasformandoli in falsi valori. L’Italia del boom economico non sapeva “fare storia” di quel suo precedente mondo contadino, precario e povero, consumatore di beni allora ritenuti necessari, perché rendevano necessaria la vita, e ora superflui in quanto rendono superflua la vita.

Come un sociologo di professione, attraverso linguaggio e segni, il linguaggio dei politici innanzitutto, Pasolini interpreta il cambiamento del paese – sociale, antropologico, ambientale – e l’affermarsi del nuovo potere senza volto del consumismo. “In questo mondo colpevole che solo compra e disprezza,/ il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza”, ha scritto in una sua poesia. Perché quest’intellettuale tra i più versatili, ucciso in modo barbaro la notte tra l’uno e il due di novembre di quarant’anni fa, questa lucciola ricomparsa che “apre – direbbe Sciascia – la sua fosforescenza smeraldina” sulle pagine del Corriere della Sera, dal 1973 fino a qualche mese prima della morte, quest’intellettuale, dicevamo, era poeta innanzitutto. Il poeta delle Ceneri di Gramsci, scritte a metà degli anni Cinquanta. Ma anche di La Guinea e della straordinaria Supplica alla madre.

Aveva scritto versi fin da bambino e si era innamorato di Rimbaud a quindici anni. Quando un suo insegnante supplente, il poeta antifascista Antonio Rinaldi, ne aveva letto in classe, al liceo Galvani di Bologna, Il battello ebbro. Poesia oscura eppure bellissima. È questo, per l’allora studente Pier Paolo Pasolini, un momento (per così dire) iniziatico. Di iniziazione alla poesia. Il momento della “dannazione”, della poesia estrema e assoluta, come quella di Rimbaud appunto.

E da allora a tutto penserà sempre in chiave poetica. Dal modo innovativo di fare cinema, teatro e arte in genere, al “nativo” (secondo lui) comunismo degli italiani e alle borgate romane dove vive povero tra i poveri e che eleva a puro ideale. Le borgate da cui probabilmente proveniva Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” condannato per il suo omicidio. Un omicidio quello di Pasolini dai lati oscuri, viste le condizioni in cui è stato trovato il cadavere. Qualcuno ha avanzato, avanza ancora l’ipotesi che c’entri l’ultimo suo romanzo. Il romanzo Petrolio, uscito postumo nel 1992, che tratta della scalata ai vertici dell’Eni dopo la morte di Enrico Mattei.

Pasolini è stato un radicale innovatore del linguaggio e della sua materia. Ha demolito le forme del sapere poetico degli italiani – l’endecasillabo, la terzina, il sonetto, la sestina, il madrigale – e le ha rese accessibili nelle sue strofe, nei suoi liberi versi. Da Il pianto della scavatrice: “Solo l’amore, solo il conoscere/conta, non l’aver amato,/non l’aver conosciuto”.

Credeva nella luce. Nella luce che inonda la storia di cui il poeta si sente posseduto. Ma non senza contraddizioni o dubbi. Grandi dubbi. E infatti nello Scandalo del contraddirmi chiede al suo caro Gramsci: “A che serve la luce?”

Gaetano Cellura

 Dello stesso Autore leggi pure nella rubrica Opinioni e Cultura: Conversazioni di Ferragosto, quando Pasolini rispose a Leone.