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Niente accade per caso. Ma non vorremmo pensarla come il sacerdote del romanzo   di Camus, che riteneva la peste un castigo per l’umana malvagità del mondo. L’origine del virus di Wuhan è ancora misteriosa, ma il mondo va ripensato da cima a fondo. E’ questo il primo ammonimento che ci viene da un anno di pandemia: rivedere il nostro rapporto con la natura, con gli animali, con il lavoro; e il nostro rapporto con il denaro, come investirlo in sviluppo e benessere, non solo in profitti.

Oggi noi non dobbiamo ragionare soltanto sulla pandemia e sulla sicurezza di alcuni vaccini. E’ la cosa più urgente, si capisce. Dalla vaccinazione di massa dipende il futuro della salute pubblica e dell’economia. E senza la salvaguardia della prima non può esserci futuro per la seconda. Dobbiamo anche ragionare su trent’anni di globalizzazione, la cui enorme ondata – tecnica ed economica – sta distruggendo il pianeta. Del virus di Wuhan sappiamo e non sappiamo. Abbiamo capito molto ma non ancora tutto. Lo vediamo mutare e spesso resistere ai vaccini.

Il mondo tuttavia era già in crisi prima. In crisi da quando ci siamo resi conto, ma senza saper ancora porvi rimedio, che anche la globalizzazione (come ci diceva Edgar Morin) non naviga verso isole di certezza. In crisi da quando la fantasia, l’irrazionalità dell’uomo, l’amore e il dolore sono diventate elementi di disturbo al potere della tecnica. Da quando il nuovo credo che solo chi ha denaro si salva e che solo lavorando di più ci si conquista il paradiso è stato imposto a tutti.

Ma vai a dire queste cose ai tanti che faticano (privi di tutele) per un pezzo di pane e hanno visto crescere invece, in questi anni difficili, povertà e disuguaglianze. O ai popoli dell’Africa che non possono avere diritto ai vaccini perché il brevetto non lo permette. Una crisi che, per restare al tema dei nostri giorni, ha impoverito la sanità pubblica tagliando investimenti e dunque risorse e servizi essenziali. E ne abbiamo visto le conseguenze. Il resto lo ha fatto la politica, incapace non solo di indicare ideali, ma di produrre idee, assumersi responsabilità. Incapace di ascoltare in questi trent’anni, di cui la pandemia è oggi l’ultimo capitolo, le poche voci che invitavano a capire meglio la portata di una crisi planetaria. Invitavano a lavorare di meno e a pensare di più a noi stessi. A cercare certezze in un oceano d’incertezze.

Gaetano Cellura