di Gaetano Cellura Michel de Montaigne era un malinconico e solitario gentiluomo del Rinascimento che, nel mezzo del cammin di sua vita, si ritirò o immaginò di ritirarsi nella torre del proprio castello. Dotata degli agi, dei confort si direbbe oggi, che gli erano indispensabili: la finestrella con vista sui vigneti e una biblioteca ricca di volumi. Dal cortile gli giungeva il gracidio delle oche. Credeva di non poter fare al suo spirito “favore maggiore che lasciarlo riposare nell’ozio più completo”.
Ben presto però lo prese la noia, dello spirito peggior nemica. Si stancò di conversare con se stesso, di fantasticare e di meditare sulle tante cose lette. I suoi pensieri procedevano a tastoni, si smentiva continuamente e si sentiva “fluttuare e flettere per debolezza”. E così decise di metterli su carta questi pensieri. Consapevole che anche se nessuno avesse letto il libro che andava componendo, non avrebbe perso tempo a essersi “intrattenuto in meditazioni così utili e piacevoli”.
In realtà Montaigne aveva un piano per guadagnarsi il maggior numero di lettori. E consisteva nel fare umilmente l’elenco dei suoi difetti e nel dipingersi come un soggetto di poco valore, “sterile e magro”. Diceva di essere meno sapiente di un ragazzo e sottovalutava il suo stesso libro: “Іo sono facitore di libri meno di ogni altra cosa”. Non sappiamo quanto fosse vera la sua schiettezza. Ma ne fece professione per mettersi allo stesso livello dei suoi lettori. E questa schiettezza elevò a cifra stilistica: “un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta quale sulle labbra”. I suoi Essais nascono così: dalla gioiosa illuminazione di riportare le proprie meditazioni. E vi lavorò vent’anni, fuori e dentro la torre, per renderle quanto più brevi e serrate, l’universale capolavoro ancora ammirato e di sempre utile lettura.
Ma non tutto quello che scrisse negli Essais è vero: diceva infatti di avere una memoria debole, ma ricordava tutto quello che aveva letto. La mistificazione lo divertiva, lo rasserenava. Malinconico e gioviale, Montaigne sapeva dare una doppia immagine di sé quasi a giocare con il lettore. Sapeva essere esperienza e sogno, ora sereno ora un po’ folle. Per Citati è il più fuggevole degli scrittori, lontano da ogni etichetta che gli storici della filosofia hanno voluto incollargli sulla fronte. Non era un mistico, ma amava la natura in cui non vedeva nulla di inutile, nulla che “non vi occupi un posto opportuno”. Dilettante come lui, Socrate era il suo modello.
Spirito libero e serenamente scettico, filosofo, scrittore e politico, Montaigne ripudiava i prodigi e le annesse credenze popolari di cui era pieno il suo tempo. Pieno al punto da renderle opinioni comuni e di libero corso contro cui gli veniva difficile “affermare il proprio giudizio”. Per lui “la verità e la menzogna hanno volti conformi e portamento, gusto e andatura simili”: inganno in cui la moltitudine degli uomini facilmente cade. Tutto ci viene nascosto, occultato. E l’unica verità cui possiamo tentare di accedere è quella di conoscere noi stessi. Socraticamente.
Per il lettore comune Montaigne e gli Essais sono un mistero: non si capisce se è davvero lui a costruire il libro o se è il libro a costruire la vita del suo autore. Passo dopo passo, fino alla vecchiaia quando vede il tempo abbandonarlo. Ma possedeva un dono Montaigne: man mano che la vita, correndo, diventava più breve, lui l’appesantiva rendendo più pieno ogni suo minuto; e credeva così di frenarne la velocità. Come? Con la lettura, lo studio, la meditazione, il dialogo con se stesso, le fantasticherie; e con i sogni, che assaporava e “ruminava”.