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Palazzo-di-Città.-E.-Basile-19041Sembra essere stata scagliata una maledizione sulla Città di Licata. Dopo aver subito l’onta di un Sindaco a distanza, costretto ad amministrare a singhiozzo per vicissitudini giudiziarie che lo hanno relegato a una contumacia forzosa, finalmente la Città di Licata sembrava aver rialzato la testa, stringendosi attorno a un concittadino cui ha tributato, in maniera democratica, un mandato pieno e perentorio.

Angelo BalsamoAngelo Balsamo nell’immaginario collettivo colmava quel vuoto di leadership e di carisma di cui Licata soffriva da troppo tempo. Ed Angelo Balsamo ha ripagato questa fiducia, nei pochi mesi di amministrazione che gli sono stati concessi, dimostrando un’energia, una vitalità, una determinazione tipica di coloro i quali conoscono i propri obiettivi ed i mezzi per raggiungerli. A prescindere dalla bontà o meno dei singoli provvedimenti finalmente a Licata si è visto un comandante a bordo della nave in grado di indicare la rotta. E occorre prendere atto che se ragguardevoli sono stati i consensi raccolti da Angelo Balsamo nella competizione elettorale, altrettanto entusiasmante è apparso il suo indice di gradimento tra la cittadinanza nei primi mesi del suo mandato, forse anche superiore ai consensi dallo stesso riscossi. Non occorreva commissionare sondaggi agli istituti di statistica per interpretare la vox populi che circolava tra la gente: il Sindaco giusto per il riscatto.

foto viabilita 02Ma questa luna di miele tra il primo cittadino e la sua cittadinanza è stata bruscamente interrotta da una vicenda giudiziaria piombata inaspettatamente come una doccia gelata. Un fantasma del passato è riemerso sulla strada del nostro Sindaco ed il sogno di una città intera si è frantumato, riaprendo una ferita appena rimarginata. E si è riaperta in un modo che, a mio modo di vedere, desta qualche sospetto, quanto meno per l’ineleganza e volgarità dei suoi contorni. Molti si sono infatti chiesti che senso avesse eseguire l’arresto del primo cittadino in modo tanto eclatante, quasi spettacolarizzando l’evento? Non sarebbe stato più sobrio per le forze dell’ordine attendere che lo stesso terminasse i propri impegni istituzionali e si recasse nell’intimità della propria abitazione? Era proprio necessario infliggere un tale smacco a lui e di conseguenza alla cittadinanza che egli rappresenta? E’ una questione di stile. Il soggetto da arrestare non era un pericoloso pregiudicato bensì un professionista, per di più investito di una funzione di rappresentanza dell’intera Città ed in quanto tale avrebbe meritato maggior rispetto. E con questa pittoresca e non necessaria messa in scena ha fatto il paio quanto dichiarato dal Procuratore Di Natale nel corso di una conferenza stampa di cui francamente non si sentiva il bisogno e nel corso della quale ci saremmo tutti aspettati che gli organi inquirenti si limitassero a descrivere con equilibrio le ipotesi accusatorie senza esprimere alcun indebito giudizio di disvalore o di riprovazione morale nei confronti del primo cittadino.

Ciò detto non possiamo non prendere atto di come la vita politica italiana degli ultimi venti anni sia stata dominata dalla presenza costante della magistratura che, a tutela della legalità, ha finito per condizionarne gli esiti (anche se a volte in senso opposto alle proprie iniziative giudiziarie). Ci troviamo di fronte a due possibili approcci culturali che rispecchiano due opposte filosofie dei rapporti esistenti tra la magistratura e la volontà popolare sintetizzabili in due slogan, dai contenuti diametralmente opposti, che generalmente campeggiano nelle aule dei Tribunali: “La legge è uguale per tutti” oppure “La giustizia è amministrata in nome del popolo sovrano”.

Il primo è un principio illuministico che vede la legge posta in una posizione di assoluta primazia e di conseguenza non crea distinzioni tra il comune cittadino e chi invece è investito di funzioni pubbliche. Il secondo, invocato a gran voce in questo ventennio dal leader politico più tartassato del mondo e generalmente dai seguaci del centrodestra, riafferma la centralità e primazia del popolo sovrano il quale, a fronte di indagini e perfino di condanne da parte dell’ordine giudiziario, manterrebbe una sorta di potere di redenzione o di perdono. Altrimenti il popolo non sarebbe sovra-no, ossia qualcosa al di sopra del quale non si colloca nessuno, nemmeno il potere giudiziario.

Naturalmente il primo principio è universalmente valido nella misura in cui non tollera discriminazioni tra cittadini nell’applicazione della legge. Questa è una conquista della civiltà giuridica a cui nessuno intende rinunciare. E tuttavia il secondo principio consente di temperare il primo in determinati casi eccezionali. Ipotizziamo, infatti, il peggior scenario possibile per il nostro Sindaco (infatti nel caso in cui fosse assolto, come ci auguriamo, il problema non si porrebbe e l’intera vicenda si chiuderebbe con tante scuse da parte degli organi inquirenti), ossia una sentenza di condanna per le accuse mossegli in questi giorni dalla magistratura. Ebbene, sarebbe giusto o no sottoporlo nuovamente al giudizio degli elettori? E se il popolo sovrano, pur conoscendo i suoi guai giudiziari dovesse confermargli piena fiducia, in questo conflitto tra il popolo sovrano e la magistratura chi dovrebbe avere la meglio?

Personalmente mi limito ad osservare che, a differenza delle grane giudiziarie che hanno coinvolto il precedente Sindaco, in questo caso ci troviamo dinanzi a vicende non commesse nell’esercizio delle funzioni di Sindaco e per di più riguardanti un’epoca antecedente la sua elezione. Pertanto, nel caso in cui le accuse mossegli dovessero trovare un riscontro, si tratterebbe comunque di vicende personali che non attengono al rapporto tra il Sindaco e la sua cittadinanza. Non vi sarebbe pertanto il tradimento del mandato ricevuto. E pertanto ben potrebbe il popolo sovrano, in tutta la sua insindacabile saggezza, decidere di abbuonargli eventuali scheletri nell’armadio. Tutto ciò, naturalmente, incandidabilità permettendo. Ma si sa, le leggi sull’incandidabilità costituiscono da sempre terreno di battaglie politiche in quanto rappresentano un corollario dei sopra esposti principi. Chi ritiene non ci debbano essere limiti in materia di elettorato passivo, se non nei casi di reati gravissimi, preferisce consentire al popolo di esprimere il proprio gradimento nei confronti di chiunque, anche chi è stato oggetto di condanne. Chi invece sostiene la necessità di prevedere severe cause di incandidabilità finisce per impedire al popolo di confermare la propria fiducia a un soggetto che la legge ha posto fuori dalla competizione politica.

Nessuno sa come finirà questa storia. Per il momento la vittima acclarata è la cittadinanza di Licata che dopo aver annusato un po’ di buona amministrazione si è vista scippata dal proprio Sindaco e sprofondata nella più buia incertezza del domani.

Gioacchino Amato