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Una settimana dopo la strage di via D’Amelio una ragazza di diciotto anni si toglie la vita lasciandosi cadere dal settimo piano di una palazzina del quartiere Tuscolano a Roma. Dove l’Alto Commissariato antimafia l’ha trasferita attraverso un sistema di protezione che presenta molte falle. Si chiamava Rita Atria. Le avevano ammazzato il padre e il fratello e aveva deciso di collaborare con la giustizia. Era molto legata al giudice Paolo Borsellino. Di lui si fidava. In lui riponeva ormai tutte le speranze. “Ora che è morto – scrisse nel suo diario – nessuno può capire il vuoto che ha lasciato nella mia vita”. E aggiunse che se vogliamo combattere la mafia dobbiamo prima sconfiggerla dentro di noi, nel nostro modo sbagliato di comportarci. Senza Borsellino si sentiva morta anche lei.

Aveva conosciuto il giudice ucciso in via D’Amelio un anno prima di quel tremendo 1992. Quando Borsellino era procuratore di Marsala. A lui e alle sue Sostitute aveva raccontato della mafia di Partanna. Nella propria solitudine di ragazzina, provata dalle uccisioni di due familiari intimi e dalla volontà di uscire per sempre dal contesto mafioso, aveva trovato in Paolo Borsellino non solo un giudice, ma – come scrisse don Luigi Ciotti – un riferimento educativo, una figura paterna.

Fatto curioso, ma poi non tanto nel paese dei misteri, dopo il suicidio, quando la ragazza era ancora all’obitorio, sparì pure la sua piccola agenda. Com’era sparita, una settimana prima, quella (ben più importante) di Borsellino: la famosa Agenda rossa mai più ritrovata. Nella sua agenda Rita Atria annotava numeri “sensibili”, tutti i suoi movimenti senza protezione.

Rita era cresciuta in un ambiente che non accettò mai il suo pentimento e lo vide come un affronto. Per questo anche dopo la morte non ebbe pace e la sua lapide venne distrutta. Di lei giustamente si parla come della settima vittima di Via d’Amelio. Perché nessuno si preoccupò della sua solitudine e della sua fragilità – condizioni in cui matura il gesto del suicidio – adeguatamente proteggendola e dandole il necessario sostegno. L’unico rappresentante dello Stato in cui riponeva fiducia era Borsellino. E quel 19 luglio in cui il giudice venne ucciso capì che per lei, testimone di giustizia, non c’era più futuro.

(g.c.)