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di Gaetano Cellura  A partire dal dopoguerra è stato il faro dell’industrialismo siciliano. E quando gli dicevano che non di industrie ma di agricoltura e turismo aveva bisogno la Sicilia, Domenico La Cavera (1915-2011) rispondeva urlando di santa ragione che solo degli ignoranti potevano sostenere una simile tesi. Per il fondatore, nel 1949, di Sicindustria, la Confindustria siciliana, non poteva esserci sviluppo nell’Isola senza il settore manifatturiero.

Tutto sommato, Domenico La Cavera, l’ingegnere palermitano che tutti chiamavano Mimì, aveva un’idea semplice per finanziare lo sviluppo industriale della regione: investirvi i risparmi dei siciliani che dormivano nei libretti postali. Il suo dinamismo gli fece guadagnare nel 1957 un lusinghiero articolo del Times. E vi si poteva leggere: “La Sicilia, a lungo trascurata, ha improvvisamente cominciato a muoversi molto più velocemente dell’Italia e di ogni altra parte d’Europa”. Infatti Mimì La Cavera fu vero protagonista della vita imprenditoriale come della vita politica dell’Isola. E cinquant’anni fa anche della cronaca galante palermitana.

Creò il Cotonificio Siciliano, uno stabilimento di filatura in cui hanno lavorato 420 persone, e fu segretario e consigliere comunale a Palermo del Partito liberale. Fu amico di Vito Guarrasi, il discusso avvocato palermitano che lui difese sempre come “persona perbene”; di Enrico Mattei e di Emanuele Macaluso, con il quale condivise e sostenne l’esperienza del governo Milazzo – governo che considerò come lo strumento per contrastare i monopoli e le grandi imprese del nord. Del presidente dell’Eni, morto nell’esplosione dell’aereo in volo da Catania a Milano, aveva sposato in un primo momento i progetti. Ma ne prese le distanze allorché comprese il suo vero obiettivo: “riproporre i monopoli in Sicilia”.

Prima che di Sicindustria era stato dirigente di Confindustria Palermo, animatore della Svimez, ideatore della Sofis, la Società finanziaria siciliana e aveva dato vita all’Air, la Società degli architetti e ingegneri riuniti. Nel 1961 pubblicò il libro Liberali e grande industria nel mezzogiorno con introduzione di Ugo La Malfa (editore Parenti). Nel 1973 Domenico La Cavera sposò Eleonora Rossi Drago, conosciuta quattro anni prima. L’attrice dai tratti delicati e gentili caduta in depressione dopo essere stata coprotagonista in numerose pellicole del dopoguerra. Pellicole come L’Altura, Estate violenta, Un maledetto imbroglio, interpretati con Massimo Girotti, Jean-Louis Trintignant, Pietro Germi e Claudia Cardinale.

Nel libro L’eretico. Mimì La Cavera un liberale contro la razza padrona (Rubbettino editore) il giornalista Nino Amadore ne racconta vita e impegno a favore dello sviluppo della sua Sicilia non disgiunto da quello del meridione. Impegno che altri osteggiavano ma che per lui era ratio essendi. Perché se è vero che l’ingegnere palermitano aveva molti amici, amici che gli riconoscevano doti non comuni unite ad onestà d’intenti, altrettanti nel mondo dell’imprenditoria e della politica ne ostacolavano viceversa il cammino. Dal presidente di Confindustria Angelo Costa a don Luigi Sturzo; dal presidente della regione Franco Restivo, poi nominato ministro degli Interni, alla corrente fanfaniana della Dc; per finire con i salotti palermitani e con la Commissione antimafia che negli anni Settanta guardava con sospetto ai suoi successi e ai suoi incarichi.

E uno dei suoi maggiori successi fu quello di aver portato la Fiat in Sicilia. E vi riuscì dopo aver stretto alleanza, attraverso la Sofis, con gli americani della Willys. Che a Carini realizzarono alcuni modelli di Jeep.

Vedeva lontano Mimì La Cavera. E infatti fu da quel momento che la Fiat guardò con interesse all’Isola. Un giorno Valletta prese il telefono per chiedergli: “La Cavera, ma lei è italiano o americano?”

Si può dire che lo stabilimento Fiat di Termini Imerese nacque da quella telefonata, in cambio della rottura dell’alleanza con gli americani venuti a costruire Jeep in Sicilia. E forse l’“eresia” di La Cavera, quell’essere un liberale eretico consisteva proprio in questo: nell’accusa che gli venne mossa di guardare a sinistra, nel voler portare, con l’industria, la classe operaia (sinonimo di comunismo) nell’Isola.

Roba vecchissima, di un altro mondo. E di un altro modo d’intendere in Sicilia l’imprenditoria, la politica e lo spirito dell’Autonomia regionale. Un mondo ingiustamente liquidato con l’etichetta di “Regione Imprenditrice”.