Pubblicità

foto americaÈ che ci sono troppe armi in giro. Soprattutto in America. Si portano con sé e vi si ricorre facilmente. Non sempre per legittima difesa. Quarant’anni fa, con il suo candido utopismo di scrittore, Carlo Cassola ne chiedeva l’eliminazione totale. Per salvare l’umanità. Per non morire tutt’insieme. Pubblicò un piccolo libro che s’intitolava La lezione della Storia. Erano gli anni della corsa agli armamenti nucleari. Gli anni del mondo diviso in blocchi e a rischio di saltare in aria.

Se non riusciamo a eliminare le ragioni dello scontro ideologico, eliminiamo (diceva Cassola) i mezzi della probabile fine del mondo. E cioè le armi. A una guerra atomica non saremmo sopravvissuti. Nessuno l’avrebbe vinta. Tutti – comunisti, anticomunisti, neutrali – l’avrebbero persa. Ma lo scontro ideologico era così forte, che non mancava chi irresponsabilmente rispondeva: “Meglio morti che rossi”. La lezione della storia non veniva capita. Solo catastrofi le guerre avevano generato. E, se dalle altre ci si era pur risollevati, una guerra nucleare sarebbe stata senza ritorno.

Questo libretto di Cassola ne richiama un altro dopo i recenti fatti del Texas: poliziotti che sparano su cittadini neri inermi; un cecchino nero che si fa “lupo solitario” e, per vendetta, spara sui poliziotti. Occhio per occhio, dente per dente. Richiama un pamphlet di James Baldwin del 1963, La prossima volta il fuoco.

Pur se mosso da rabbia e frustrazione, anche questo libro era pieno di coscienza della storia. “Quando un uomo nero non sta al suo posto – scrive Baldwin – il cielo e la terra sono scossi fino alle fondamenta”. Era cresciuto in povertà nell’America delle divisioni razziali. Un nero con il cervello sveglio sin da bambino. L’unica cosa che aveva. Non sapeva ancora come l’avrebbe usato. Ma poi lo usò bene. Usò il cervello per diventare scrittore.

Il 1963 è un anno importante nella storia del mondo. A Dallas viene ucciso il presidente Kennedy. Il presidente della Nuova Frontiera americana. A Harlem erano già iniziate le rivolte urbane di un decennio che avrebbe visto l’omicidio di Martin Luther King e, due mesi dopo, quello di un altro Kennedy. Come ora, anche quelli erano per l’America tempi di elezioni. Come ora, anche quelli erano tempi di odi e discriminazione razziale. Bob Kennedy, candidato alla Casa Bianca, sconvolto da tanta violenza, in un comizio a Indianapolis si prese la testa tra le mani e disse ai neri, tentati dall’odio verso i bianchi per un atto così ingiusto come l’omicidio del reverendo King, di provare il loro stesso sentimento: “Ho avuto un familiare ucciso da un bianco. Eppure dobbiamo sforzarci, qui negli Stati Uniti, di capire e di superare questi tempi difficili”.

Oggi si ricorre ad altre parole. A slogan come quelli di Trump:“Bisogna rifare grande l’America”. Cioè tornare indietro. Questo messaggio passa. Tornare alla discriminazione per permettere ai bianchi di recuperare le quote di benessere perdute cinquant’anni fa, quando i neri cominciavano a vedere riconosciuti i propri diritti. E sul Los Angeles Times, Cathleen Decker ha giustamente osservato: le crisi che scoppiano durante una campagna presidenziale definiscono i candidati.

I dati ci dicono: 990  morti, neri e di altro coloro, ammazzati dalla polizia negli ultimi due anni. Gli slogan reazionari eccitano ancora di più gli animi da una parte e dall’altra, spargono veleno non solo tra neri e bianchi, non solo di carattere razziale ma anche sociale: salario minimo a 15 dollari l’ora, diritto all’aborto e alla diversità di genere. Queste sono, mentre si spara con disinvoltura, le pulsioni  dell’America. Si può uccidere anche con un pugno in faccia, come è successo a Fermo. Ma intanto perché non pensare  a un uso limitato delle armi? O a eliminarle, come suggeriva con la sua ragionevole utopia  il buon Cassola?

Gaetano Cellura