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di Gaetano Cellura Il suo nome oggi dice poco. E ai giovani praticamente nulla. Eppure Riccardo Lombardi è una figura storica del riformismo italiano. Così radicale da essere considerato un riformista rivoluzionario. Così utopista da vedere nel primo centrosinistra degli anni sessanta la base per l’alternativa socialista in Italia. Ma era snobbato dal Pci, temuto dai conservatori democristiani e contrastato da molti dei suoi stessi compagni del Psi. Pertini su tutti, che non gli perdonava il passato nel partito d’Azione etichettandolo come giellista.

Toscano di padre, siciliano di madre, Riccardo Lombardi nasce nel 1901 a Regalbuto (comune in provincia di Catania allora e di Enna oggi): dove il padre, capitano dei carabinieri, prestava servizio. Completati i primi studi ad Acireale, si laurea in ingegneria industriale al Politecnico di Torino. Durante il fascismo non fa mancare la propria partecipazione all’attività clandestina e poi alla Resistenza. Dopo la Liberazione viene nominato prefetto di Milano poi ministro dei trasporti del Regno d’Italia nel governo di Alcide De Gasperi. Eletto all’Assemblea costituente, dal 1948 al 1983 è stato deputato della Repubblica consecutivamente per otto legislature.

Scomparso il partito d’Azione, entra nel partito socialista, aderisce alla corrente autonomista di Nenni e nel 1959 elabora il programma del futuro centrosinistra. Fin troppo radicale e dirigista in verità per essere approvato e rispettato alla lettera dagli alleati di governo, la Democrazia cristiana per prima. Prevedeva, oltre alla nazionalizzazione dell’energia elettrica di cui Lombardi fu il padre, la legge urbanistica, la riforma del fisco e della federconsorzi, della sanità e delle regioni, fino alla legge sul divorzio. E quando, nella notte che fu detta di San Gregorio (16-17 giugno del 1963), mentre stava per essere varato il primo governo organico di centrosinistra, vide che vi mancava nel programma il progetto di riforma urbanistica da lui concepito (riforma che lasciava ai proprietari solo “un diritto di superficie”), insieme ad altri autonomisti e agli esponenti della minoranza di sinistra del partito, Lombardi decise di bocciarlo.

Determinando in questo modo un ritardo di sei mesi alla nascita del primo governo Moro. Il governo del leader democristiano regista della nuova formula politica. Lombardi verrà accontentato all’inizio di dicembre. Allorché vede la luce finalmente (dopo il monocolore “balneare” guidato da Giovanni Leone) il governo di Aldo Moro. Accontentato per modo di dire. Perché la sua riforma urbanistica non verrà mai approvata. Il che genera la sua uscita dalla corrente autonomista, la presa di distanza dalle posizioni filogovernative di Pietro Nenni e la nascita di una nuova corrente da lui creata e che viene detta appunto “lombardiana”.

Fatti di sessant’anni fa. Rivelatori del rigore e dell’intransigenza di Riccardo Lombardi sul rispetto del programma concordato. Gli venne affidata la direzione dell’Avanti, dalle cui colonne non mancò mai di ricordare ai socialisti il programma originario del centrosinistra di cui il politico di origini siciliane era pur considerato il vero cervello economico. Fausto Bertinotti, ritenuto da alcuni come suo erede, ne ricorda la voce ruvida e calda nei comizi e nelle conferenze. Quella voce in cui convivevano e vibravano le sue parole e i suoi pensieri prima di andare per il mondo. Quella voce con cui chiedeva per il governo dell’Italia “socialisti ministri e non ministri socialisti”.

Lombardi diede una lezione di metodo non solo al centrosinistra ma a tutta la sinistra italiana. Chiedeva per il centrosinistra anche i voti non necessari ma aggiuntivi del Pci. Richiesta non accolta dai comunisti e comunque subito stoppata da Aldo Moro con la nota espressione della “delimitazione delle maggioranze”. Dell’economia di mercato, com’era solito dire, voleva “cambiare il motore senza fermare la macchina”. Riforme importanti ma non strutturali. Scuole, ospedali, strade. Soprattutto la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Voluta e ottenuta.

Per lui il cantiere delle riforme doveva rimanere sempre aperto. Pensava di avere ragione, ma pochi erano disposti a dargliela. Fu un politico di complessa formazione. Liberale e crociana all’inizio. Poi popolare e azionista. Marxista infine. Del Psi del dopoguerra visse attivamente tutte le stagioni. E morì un anno dopo il varo della prima storica presidenza del consiglio socialista: quella di Bettino Craxi. Di cui, pur ritenendolo un delfino di Nenni, aveva contribuito all’elezione a segretario nel 1976, ma con cui entrò presto in dissenso dicendo che un Psi come quello craxiano “non aveva ragione di esistere”.