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Il problema non è il simbolo né il nome del partito. Ma saper parlare al popolo degli abissi, come lo chiamava Jack London: riprovarci: riprendere un rapporto brutalmente troncato: ritrovare il linguaggio perduto. Un linguaggio di sinistra, un comportamento conseguente a favore dei deboli, dei milioni di poveri prodotti dalla globalizzazione liberista e dalle politiche del rigore imposte dall’Unione europea. E per poveri intendo anche gli immigrati: fino a che punto accoglierli senza mettere a rischio sicurezza e risorse nazionali, come gestirli e collocarli nei paesi dell’Unione, senza creare scontri con i poveri di casa nostra da cui trae linfa il populismo.

La sinistra è stata totalmente assente su queste tematiche. E ha capito tardi che il problema della sicurezza riguarda tutti i cittadini, non può essere lasciato nelle mani della destra, che ha saputo cavalcarlo con successo.

Se non si riflette su questi temi, non si elaborano nuove proposte, non si capisce che il tuo elettorato è quello che hai perduto, che la sfida del riformismo e dell’Europa come meta non può lasciare per strada gli ultimi e abbracciare le classi dominanti, insomma se l’inversione di tendenza o meglio il ritorno alle naturali origini non è serio e ricco di nuovi contenuti, serve a poco rinunciare al simbolo, sciogliere il Pd in una grande alleanza, come a nasconderlo allo sguardo dei più; servono a poco le parole di Zingaretti al Messaggero: “Il simbolo non è un dogma”. Bel modo d’incominciare per il probabile neosegretario.

Di grandi alleanze oltre il partito, di grandi alleanze senza simboli ma di cui il partito sia comunque promotore sento parlare da almeno quarant’anni. È una formula cui ricorreva il Pci tutte le volte che chiamava a raccolta l’intera area progressista, il mondo cattolico, il mondo della cultura, quello della scuola, dell’associazionismo, per fare fronte comune contro qualcosa che veniva ritenuto pericoloso per la società, per la democrazia. Ora si riascoltano più o meno gli stessi appelli fingendo che quel mondo sia ancora lì, a portata di mano e non sia andato altrove, si ricorre alle stesse formule per fermare l’ondata populista che minaccia di travolgere le istituzioni europee, che così come sono, come sono guidate, non meritano altro che di essere travolte. È ancora possibile difendere un’Unione che non ha saputo farsi federazione se non per la moneta unica, trascurando tutto il resto? Possiamo riconoscerci in un’Europa che lascia in mare per cinquanta giorni degli esseri umani contro ogni principio della cultura democratica e della cultura cristiana? Possiamo ancora difendere un’Unione europea che doveva essere ambizione collettiva e che invece è oggi generalmente invisa ai popoli perché l’economia si è mangiata la politica e la finanza si è mangiata l’economia?

Come tanti, credo di no. Credo che, così com’è, non può essere più difesa. Che l’Europa non va distrutta, ma che va cambiata. Profondamente cambiata. Ed è questo in fondo a dividere riformismo e sovranismo, a segnare le due strade alternative nel mondo odierno.

Personalmente sono contrario alla rinuncia al simbolo del Pd per le Europee di maggio. Vorrebbe dire rinunciare anche al progetto originario del partito. Quello per cui è nato senza mai realizzarlo: unire cioè l’intero campo del riformismo italiano sotto un’unica bandiera. Comunque sia – partito con il proprio simbolo e il proprio nome o grande Alleanza come propone Calenda –,sono i contenuti che ci metti dentro a determinare il risultato finale. La volontà di fare autocritica, riconoscere un’Europa incompleta e sbagliata, humus naturale per populisti e sovranisti. E diventare europeisti insubordinati, veri “legislatori del futuro”.

Gaetano Cellura