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La lotta alla mafia e l’impegno politico. Il giudice Cesare Terranova viene ucciso il 25 settembre di quarant’anni fa. Sta per recarsi al lavoro, alla Corte d’Appello di Palermo, quando due killer (in via De Amicis) affiancano l’auto di scorta, una Fiat 131, che lui stesso guida e lo crivellano di colpi. Fa la stessa fine il maresciallo di polizia Lenin Mancuso, che sulla stessa auto gli stava accanto come un passeggero e che dal 1963 era il suo angelo custode. Tra i due c’era un rapporto di forte collaborazione. Il maresciallo aveva partecipato all’inchiesta su Michele Vinci, il mostro di Marsala, quando il magistrato nel 1971 ne dirigeva la Procura.

Tre mesi prima aveva concluso la sua esperienza politica – due legislature come deputato indipendente del Pci – ed era tornato a indossare la toga.

Cesare Terranova conosceva la mafia e la mafia conosceva lui. Non fu il solo cadavere eccellente di quel funesto anno 1979. Iniziato con l’omicidio del giornalista Mario Francese. Il 9 marzo è il segretario provinciale della Dc Michele Reina a rimanere vittima di un agguato di mafia. Il 21 luglio cade il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, ucciso con sette colpi di pistola sparatigli alle spalle.

L’uccisione di Cesare Terranova segue quella del procuratore Scaglione, otto anni prima, e precede di quasi un anno quella di un altro procuratore, Gaetano Costa, freddato alle spalle con sei colpi di P38 in via Cavour.

La carriera di magistrato, incominciata come pretore di Messina, Cesare Terranova la interrompe nel 1972. Quando il Pci lo candida alla Camera. È una parentesi di sette anni. Durante la quale mette a disposizione del parlamento la sua conoscenza del fenomeno mafioso. Che gli permise di contraddire con la sua relazione di minoranza le conclusioni cui era giunta la commissione parlamentare antimafia, di cui faceva parte, e che sottovalutava i rapporti della Democrazia cristiana – segnatamente di Salvo Lima, Giovanni Gioia e Vito Ciancimino – con la mafia siciliana.

Gli anni in cui maggiormente si concentrano le sue indagini antimafia sono quelli compresi tra il 1958 e il 1969. Un intenso lavoro sui fratelli La Barbera e soprattutto sui Corleonesi. Vanificato dai processi svoltisi per legittima suspicione a Catanzaro (1968) e a Bari (1969) in cui vennero assolti per insufficienza di prove personaggi come Liggio e Riina.

Cesare Terranova conosceva la mafia – ne aveva studiata e capita la metamorfosi – e la mafia conosceva lui. Così bene che, finita la sua esperienza in politica, pensò di eliminarlo appena gli rivide indossare la toga. Nel libro A futura memoria, Sciascia lo ricorda come un uomo e un magistrato con gli occhi di un bambino. Un uomo candido. “E dal candore – scrive lo scrittore – credo gli venisse tanta acutezza e tenacia e sicurezza”.

 

Gaetano Cellura