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L’Armistizio con gli Alleati, firmato cinque giorni prima a Cassibile dal generale Castellano, venne tenuto segreto fino all’8 settembre del 1943. E ad annunciarlo, un’ora prima di Badoglio, stanco delle sue tergiversazioni, fu il comandante Eisenhower dai microfoni di radio Algeri.

Secondo alcuni storici – Salvatore Satta, Renzo De Felice, Ernesto Galli della Loggia – quel giorno di settantacinque anni fa morì la nazione. Leggere i loro libri – De profundis (1948), Il rosso e il nero (1995), La morte della patria (1996) – per trovarvi gli argomenti di cui ancora si dibatte. Il nucleo di questi tre libri è che l’8 settembre sia crollato il sentimento nazionale nato durante il Risorgimento. Crollato e non più risorto secondo Della Loggia e De Felice.

Per Della Loggia sono stati il mito della Resistenza e la presenza in Italia di un partito internazionalista come il Pci a impedire questa resurrezione. Una tesi quella del Pci contrario agli interessi nazionali e a favore di “una presunta patria socialista diversa dalla propria” (vedi il suo inquietante atteggiamento, nel dopoguerra, riguardo alla questione dell’Istria e di Trieste) naturalmente contestata da storici come Claudio Pavone e Nicola Tranfaglia e dal presidente Ciampi. Secondo i quali il sentimento nazionale è invece rinato con la Resistenza e con la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio del 1948.

In realtà vi è molto di vero in quel che Galli Della Loggia sostiene nel suo La morte della patria. Soprattutto sulla nostra Resistenza, divisa in tante “anime”, di cui una  (la comunista) con forte ideologia, e proprio per questo incapace di creare, finita la guerra e ricostruito lo stato, una memoria condivisa, un comune spirito patriottico e un’identità nazionale.

Lasciando aperto il dibattito sul carattere della Resistenza, ci sono altri elementi su cui la storiografia può trovare convergenze riguardo alla scomparsa definitiva del sentimento nazionale o addirittura alla sua mai avvenuta nascita. La carenza di gloria militare, fondamento probabile di quell’autostima “costante e profonda” che non abbiamo come popolo né moralmente come individui (e già messa in risalto da Leopardi); e la “sindrome di Carlo VIII”, come la chiama Sergio Romano. Vale a dire  l’inclinazione storica dell’Italia, sin dai tempi in cui era divisa in tanti piccoli stati, a chiedere l’intervento dello straniero per la difesa degli interessi di un principe contro l’altro.

Una scena rivista, in diverso modo, durante la guerra fredda, quando abbiamo vissuto sotto la protezione degli americani, e ora che abbiamo delegato all’Unione europea pezzi della nostra sovranità. In cambio di una sovranità più grande spesso contraria al nostro interesse nazionale. Che proprio oggi, e nel rapporto con l’Europa in particolare, è motivo di aspro scontro politico.

È nel momento in cui questo interesse viene oppure non viene definito che un popolo nasce o muore come nazione. Non ce ne sono altri in realtà. Oggi come quel giorno di settantacinque anni fa e come domani.

Gaetano Cellura