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L’elenco delle vittime di Totò Riina è lungo. Da Dalla Chiesa a Falcone. Tutte vittime dell’Italia civile e democratica che volevano uno Stato giusto senza prepotenze e condizionamenti mafiosi. Senza stragi.

La conosciamo questa storia, giornali e TV la stanno ripercorrendo in questi due giorni per ricordare a tutti – a chi sa, a chi finge di non sapere, a chi senza pudore vorrebbe cambiarla – quanta brutalità e ferocia vi sia dentro, quanto sangue innocente di servitori dello Stato abbia cosparso la Sicilia (e non solo).

Ma c’è una verità che ancora ignoriamo e che riguarda l’ultima parte di quel sistema di complicità tra mafia e pezzi delle istituzioni che dai tempi di Giuliano a quello delle stragi del ’93 ha condizionato (e indirizzato) la vita democratica del paese.

Questa verità vogliamo conoscere. Quella sulle cui basi è nata la cosiddetta Seconda Repubblica. Riina e Provenzano non si sono pentiti, non ci hanno detto nulla di questa torbida stagione a noi vicina. Sono morti da capi, secondo il loro modo di pensare. (Ma capi di che? – hanno giustamente osservato alcuni. D’una vita vissuta a ordinare massacri, passando da un nascondiglio all’altro, da una masseria alla galera, da un ergastolo all’altro?)

Le fasi di transizione della storia italiana sono sempre state dense di ombre. Ombre mafiose. Un ruolo la mafia ha avuto negli anni del passaggio dalla monarchia alla repubblica, dal fascismo alla democrazia. Quasi una legittimazione in chiave anticomunista durante la guerra fredda. E un ruolo ha avuto, può aver avuto (ce lo dirà il processo sulla Trattativa) tra il ‘92 e il ’94. Di molte cose – compresa la strage di via D’Amelio – sappiamo tutto e non sappiamo niente. Nel senso che, pur avendo ognuno di noi chiare certe idee, non c’è ancora una verità processuale che le confermi.

Riina e Provenzano (Binnu u’ Tratturi ) sapevano, ma non hanno parlato. E dunque, a loro modo, hanno voluto sotterrare questa verità. Erano parte di una storia che li ha visti autori, attori e comparse.

Gaetano Cellura