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cucchiDue storie torbide e sconvolgenti. Una, quella di Stefano Cucchi, accaduta nella civile, democratica Italia; l’altra nell’Egitto di al-Sisi, paese nelle mani di questo generale golpista che il governo italiano si è rifiutato di dichiarare “non sicuro” come hanno chiesto i genitori di Giulio Regeni.

Due storie di giovani pestati e torturati, ancora senza verità. Verità processuale, intendiamo: ché quella dei fatti è piuttosto chiara. Chiara da tempo.

Regeni era un giovane studioso dei modelli economici mediorientali: amava il sindacalismo: voleva riconosciuti i diritti di chi lavora. Ma per la polizia del regime militare egiziano era solo una spia da eliminare, e dopo averlo torturato fino a sfigurarlo. La madre l’ha riconosciuto solo dal naso e ha parlato di dolore umano tutto riversato sul suo corpo. L’Egitto era e continua a essere un paese con cui, dopo la farsa delle interruzioni diplomatiche, il governo italiano continua a fare affari: nonostante le menzogne, i depistaggi, la sua scarsa collaborazione per far luce sulla vicenda.

Stefano Cucchi deve all’impegno inesausto della sorella Ilaria e dell’avvocato Anselmo, che non si sono arresi di fronte alle sentenze d’assoluzione, e ora anche a un libro di Carlo Bonini, Il corpo del reato, se l’inchiesta che riguarda la sua morte per le violenze subite viene riaperta. Il pestaggio ci fu, le vertebre spezzate pure. E furono la causa della sua incapacità di reggersi in piedi, a un certo punto, e poi del suo decesso atroce.

Il libro di Bonini ci racconta minuziosamente le violenze subite dal giovane Cucchi, definito “drogato di merda” dai suoi massacratori, gli stessi che avrebbero invece dovuto proteggerlo, la sua agonia e tutte le tappe di un percorso giudiziario che non ha trovato colpevoli. E ora si sa perché. Perché altri dovevano essere processati al posto di quelli giustamente assolti. Anche in questa, come in tante altre storie italiane e come nella vicenda egiziana di Giulio Regeni, tante omertà e silenzi. Dopo sette anni un’altra verità sta emergendo. E potrebbe essere quella testimoniata dal “corpo del reato”.

Gaetano Cellura

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