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Esce domani La bellezza non ha prezzo, l’autobiografia di Zeman scritta con Andrea Di Caro, vicedirettore della Gazzetta dello Sport, e anticipata da un’intervista rilasciata ieri dal tecnico boemo ad Aldo Cazzullo. Intervista che riassume, com’è probabile, i temi del libro e nella quale ne ho ritrovati alcuni contenuti in quella che gli facemmo nel 1985 con Francesco Pira per il nostro libro L’anno di Zeman, il primo  sull’ex allenatore di Licata,Messina,Foggia,Lazio,Roma e Pescara (se non dimentico altre squadre).

Che fosse anticomunista (ricorda ora:“Non ho mai portato un fazzoletto rosso”) l’avevamo capito già allora. D’altra parte come non esserlo – per le ristrettezze e la povertà in cui vi si viveva – nella Cecoslovacchia del Patto di Varsavia? Vi andò via prima dell’arrivo dei carri armati sovietici seguendo le orme dello zio Cestmir Vycpálek. Già in Italia, a Palermo. Poco dopo chiusero le frontiere e non sarebbe più potuto uscire dal suo paese. Che fosse juventino è invece una sorpresa. Viste le sue denunce contro il doping e contro il sistema-calcio. Ce l’aveva con il trio Moggi, Bettega, Giraudo. Con l’alleanza tra la Juve e il Milan al Nord, per non far vincere l’Inter che non ne faceva parte, ma anche con l’arrivo della finanza nel calcio che costò cara a Tanzi, Cragnotti e Gaucci. E alle rispettive squadre. La Juve a cui voleva bene era quello dello zio Cestmir, dei suoi due scudetti e del famoso colpo di tacco di Bettega a San Siro.

Gli anni di Foggia e del presidente Causillo. Che fu arrestato ma che lui aspettò all’uscita dal carcere perché lo sapeva innocente, come venne dimostrato. La doppia panchina sulle squadre romane, gli esoneri perché i presidenti capirono o seppero che con lui in panchina, inviso al sistema, non avrebbero vinto il campionato. E infatti poi arrivarono sulle due sponde dalla capitale Eriksson e Capello – e fu la vittoria di un campionato a testa. Una serie di racconti e di aneddoti sui giocatori allenati. Anche sul più talentuoso e sfortunato: Maurizio Schillaci.

Nome che ci riporta a Licata e al Licata, negli anni di Zeman definito la “Nazionale siciliana”. Modello originario del sistema di gioco zemaniano, interpretato da giovani giocatori perlopiù palermitani. E ai metodi di allenamento – e di alimentazione – che li facevano correre più degli avversari.

L’ultima considerazione sul titolo del libro. Azzeccato. Perché davvero la bellezza non ha prezzo. E perché riassume la filosofia di Zeman. Meglio vincere 5 a 4 che 1 a zero. Bellezza intesa come spettacolo, emozione continua per il pubblico pagante. E di emozioni Zeman ne ha regalate tante.

Gaetano Cellura