di Gaetano Cellura Nell’ultimo anno di vita Franz Kafka, sempre più magro e sofferente, fu molto tenero con i bambini. A Müritz, il 13 luglio del 1923, durante una festa in suo onore alla colonia estiva del Volksheim ebraico, vide un bambino alzarsi da tavola, inciampare e cadere. Le risate dei presenti l’avrebbero sommerso se lo scrittore non fosse intervenuto per prevenirle: “Come sei caduto bene, e come ti sei alzato meravigliosamente!”, gli disse tempestivamente con il più serio dei toni e risparmiandogli così la sicura umiliazione.

Quella sera Kafka avrebbe conosciuto Dora Diamant, la sua ultima fidanzata. Che le rimase accanto sino alla fine nel sanatorio austriaco di Kierling, dove Kafka viene ricoverato dal 19 aprile al 3 giugno del 1924 (prossimo il suo centenario). Quando, a 41 anni, andò via per sempre dal mondo senza aver potuto raggiungere l’agognato paese di Canaan.

Con Dora vivrà poi a Berlino Steglitz l’autunno più tiepido e bello della sua breve vita. Perdendosi “nei silenziosi viali” del distretto berlinese: “La mia strada – scriveva – è l’ultima via quasi cittadina, poi tutto si scioglie nella pace di giardini e ville”. Il bosco e l’Orto Botanico sono a poca distanza dalla casa in cui abita. Ed è durante una passeggiata nel parco che lo scrittore incontra una bambina che singhiozza disperatamente. Aveva perduto la sua bambola. Fu, da parte di Kafka, il secondo momento di tenerezza per i bambini di cui abbiamo conoscenza.

E con queste parole provò a confortarla: “La tua bambola è in viaggio, lo so. Mi ha appena scritto una lettera”. Dubbiosa, la bambina gli chiede di fargliela vedere. E lui risponde che l’ha lasciata a casa e che l’avrebbe portata l’indomani. E qui comincia una magnifica storia – di fantasia e finzione.

A casa Kafka scrive una bella lettera in cui la bambola si scusa con la bambina per essere andata via. Le dice che, pur volendole molto bene, era stanca di vivere sempre nella stessa famiglia: aveva bisogno di cambiare aria, girare il mondo. Ma che le avrebbe scritto tutti i giorni per raccontarle le tante cose nuove che vedeva.

Tornato nel parco il giorno dopo, Kafka legge la lettera alla bambina ad alta voce. Ne seguirono altre: in cui lo scrittore immagina paesi e luoghi mai visti, come non aveva mai visto l’America del sedicenne Karl Rossmann, uno dei personaggi dei suoi tre romanzi. Finché si pose il problema di come far finire quel radioso gioco infantile, quella dolce finzione in cui anche la bambina si era perfettamente calata.

Kafka ne parla con Dora. E insieme decidono che il modo di porvi fine era di far sposare la bambola. Che ora avrebbe dovuto dedicare tutto il proprio tempo ai preparativi per le nozze. “Tu capirai – scrisse la bambola alla bambina – che in futuro non possiamo più vederci”.

Kafka scrisse molte lettere durante la vita. Alle fidanzate, agli amici, e ai familiari cui nascose sempre il peggioramento della sua salute. Ma credo che quelle della bambola alla bambina che l’aveva persa, scritte come un racconto, uno dei suoi tanti racconti brevissimi, riflettano il suo insoddisfatto anelito paterno. Un figlio Kafka l’aveva avuto in realtà: da Grethe Bloch, amica della sua prima fidanzata. Ma gli fu tenuto nascosto e non lo seppe mai.