Ma a complicare l’iter del passaggio dal privato al pubblico ci ha pensato la Regione siciliana con una legge ancora una volta abborracciata che, com’era prevedibile e come il sottosegretario Faraone aveva a suo tempo pubblicamente annunciato, non ha superato le forche caudine del Consiglio dei ministri. Anche a noi sembrava assurdo il mantenimento di nove ambiti ottimali, uno per provincia, quando in Sicilia ne bastano cinque (quanti sono i bacini idrici).
La legge 19 poi, secondo il Consiglio dei ministri, contiene molte norme che non tutelano la concorrenza e l’ambiente ed eccedono “dai limiti posti alle competenze regionali”. A Palazzo d’Orleans si sono detti pronti a rivedere il tutto e a correggere gli errori convocando immediatamente la commissione parlamentare, l’assessore al ramo e l’ufficio legislativo, ma ormai la frittata è fatta. E purtroppo non è la prima. Anche le leggi sugli appalti e sulle province sono state impugnate.
Le leggi non si fanno e non si votano sull’onda emotiva. Vanno pensate. Perché in gioco ci sono sempre gli interessi dei cittadini. E questa del ritorno all’acqua pubblica, gestita in house dai comuni o attraverso i consorzi, non è affatto una questione semplice. Vogliamo ricordare che c’è anche un aspetto finora trascurato. Capire che fine faranno i lavoratori delle attuali gestioni private.
(g.c.)