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mafia-e-politica-660x330Quattro mesi prima avevano ammazzato l’avvocato Vito Montaperto. A Palma di Montechiaro nella curva dell’Omo morto. Veniva da Gela e viaggiava insieme agli onorevoli Giglia e Di Leo e al dottor Inclima, dirigente del Consorzio Agrario di Agrigento. A Gela erano andati per incontrare l’onorevole Aldisio. La vecchia e rumorosa Mercedes a nafta della segreteria provinciale della Dc venne bloccata da alcuni uomini con il volto coperto. Tutti furono fatti scendere, ma solo l’avvocato ventisettenne di Campobello di Licata, lo stesso paese dell’onorevole Giglia, venne freddato a colpi di lupara. L’omicidio è rimasto impunito.

Vito Montaperto, cui stavano per aprirsi le porte di una brillante carriera politica, aveva in comune con il vicesindaco democristiano di Licata Giovanni Guzzo l’adesione allo stesso partito e alla stessa corrente. E forse gli stessi mandanti dei loro omicidi. Entrambi avevano scritto delle lettere più o meno dello stesso tenore all’onorevole Bonfiglio o all’onorevole Aldisio: “Presidente, gli amici dell’altra sponda mi minacciano”. Ma non si è saputo o non si è scavato abbastanza per saperlo a quale dei due presidenti, mancandone il nome, sono state spedite o rimaste in procinto di esserlo. Bonfiglio era presidente dell’Ars e Aldisio, ex ministro dei Lavori pubblici, in quel momento presidente del Piano quinquennale per la Sicilia. Anche l’omicidio del licatese Giovanni imagesGuzzo resterà impunito. Se ne sono occupati, storicamente, i professori Giuseppe Peritore (nel suo Licata città rivoluzionaria) e Carmelo Incorvaia  con un lungo, documentato articolo sul mensile La Vedetta del marzo 2003. Peritore ha inquadrato en passant l’omicidio di Guzzo nel decennio di sangue che sconvolse Licata. E come uno dei tanti delitti di mafia avvenuti tra il 1949-59. Stessa cosa fece Michele Pantaleone nel saggio Mafia e politica.

 Carmelo Incorvaia, che della nostra città è stato sindaco e deputato nazionale, ha invece approfondito l’intero contesto (non solo politico e sociale, ma di potere e di lotta per il potere locale) in cui l’eliminazione di Giovanni Guzzo matura. E si capisce, leggendolo, che se a eseguirla può essere stata la manovalanza mafiosa di quegli anni, dietro di essa c’erano delle menti che il giudice Falcone avrebbe definito “raffinate”.

L’articolo dell’onorevole Incorvaia è ricco di non trascurabili dettagli: persino sul calibro dei proiettili e sull’autopsia eseguita nel cimitero di Marianello; e incornicia alla perfezione il quadro di omertà, reticenze, paura, testimonianze monche e ritrattazioni di quanti sicuramente videro l’assassino e i complici che facevano da palo. Con estrema precisione ricostruisce anche le ultime ore e gli ultimi incontri del vicesindaco licatese in quella giornata a lui fatale.

È una sera di metà gennaio del 1955 quando l’assassino entra nell’ufficio di Guzzo in  corso Umberto, all’angolo di una delle tante stradine del Quartiere Africano. Il vicesindaco è piegato sulle carte della sua scrivania e viene colpito a morte senza avere il tempo di usare la rivoltella che portava sempre con sé, regolarmente autorizzata. Aveva 52 anni, sposato con figli, un passato di emigrazione in Sudamerica ed era stato fascista durante il Regime. Tornato nella sua città si era fatto strada nella politica per le sue notevoli capacità di organizzatore e aveva intrapreso attività economiche, dal commercio dei primaticci (molto redditizio in quegli anni Cinquanta) a quello dello zolfo.

Dirigente del locale Consorzio Agrario e socio autorevole dell’Unione provinciale delle cooperative, era noto anche per la passione per la squadra di calcio del Licata. Si dice che non aveva paura di nessuno, si muoveva in città con il dito sempre sul grilletto della rivoltella in tasca e pronto dunque a far fronte in tutti i modi alla concorrenza – legale e illegale – nel mercato dei primaticci. Negli ultimi giorni di vita appariva visibilmente inquieto.

La geografia del potere cambiava in quegli anni a Licata e nella Sicilia occidentale. La mafia non era più quella rurale dei camperi, dei gabellotti e degli abigeati. I suoi interessi ora si spostavano nelle città, nei paesi. Diventava mafia dei colletti bianchi e dei nuovi intrecci con la politica e i potentati finanziari. Senza esserne consapevoli, Giovanni Guzzo e Vito Montaperto furono vittime designate di questa fase di transizione. Negli archivi del Centro Pio La Torre è conservato il Memoriale sui delitti di mafia nella provincia di Agrigento inviato alla Camera nel 1964 dalle segreterie del Pci di Agrigento e di Sciacca.

Gaetano Cellura