…Parte da Pasolini la disamina di Sciascia dell’affaire Moro, dei cinquantacinque giorni della sua prigionia. Da Pasolini che considerava Moro il “meno implicato di tutti”…Da Pasolini che aveva dedicato articoli e note al linguaggio dello statista democristiano: il linguaggio dell’incomunicabilità. Durante la sua attività politica Moro aveva adoperato il linguaggio del “non dire”: e a stento lo si riusciva a capire, a decifrare. Adesso dalla prigione del popolo per quello che Sciascia considera “un contrappasso diretto”, ed essendo prigioniero: per censura e autocensura, Moro tenta di dire con il linguaggio del “non dire”, di “farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire”.
E Pirandello direbbe: il dramma, signori, è tutto qui. Nel linguaggio, nelle lettere (dal carcere) che lo contengono e che diventano – disconosciute – gli strumenti della sua morte. Anche le Brigate Rosse lo consideravano il meno implicato di tutti. E lo scelsero come bersaglio. Il processo a Moro era il processo alla Dc e, in quel momento alla politica del Compromesso storico (la mattina del sequestro il presidente della Democrazia cristiana si recava in parlamento per votare il primo governo con i comunisti nella maggioranza)…
E cosa scrive Moro dal carcere? Cosa pensa?
Tutto L’affaire Moro è carico di pietà e di dolore, d’indignazione e di furore civili. A Sciascia premeva di dimostrare, e con la lucidità di sempre vi riuscì, che le lettere di Moro erano vere e rispecchiavano il suo pensiero…
Tratto da Scrittori di Sicilia di Gaetano Cellura