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di Gaetano Cellura  La voce correva in effetti. Nel dopoguerra alimentata dai partiti d’opposizione. E ancor oggi qualcuno la ritiene in qualche modo attendibile. Ma gli studi storici dal decennio successivo allo sbarco, nonché i più recenti, tendono a sminuire, se non proprio a smentire, la collaborazione della mafia con gli americani per agevolarne la conquista e l’amministrazione della Sicilia a partire dal 10 luglio di ottant’anni fa.

E raccontava di ufficiali americani (almeno due) presenti a Licata sotto mentite spoglie nei mesi precedenti lo sbarco per prendere conoscenza e visione di persone e luoghi dove sarebbe militarmente avvenuto. E uno dei due sarebbe stato il maggiore Toscani, futuro amministratore della città. La voce ha avuto senza dubbio un suo fascino. Un fascino letterario per così dire: tanto d’averne fatto anch’io tesoro per un personale racconto, e di pura fantasia, pubblicato quasi vent’anni fa.

Una voce, dunque. Che di storico non ha nulla. E ne rimase affascinato il buon Michele Pantaleone, che nel suo saggio Mafia e politica racconta l’episodio del fazzoletto rosso con al centro la lettera L, per indicare Lucky Luciano come segno d’intesa, piovuto da un aereo americano dopo lo sbarco a Licata, raccolto nelle campagne di Villalba da un contadino e recapitato a Calogero Vizzini. Trascorsi  pochi giorni, un carro armato entra nel paese di don Calò (e di Pantaleone) sventolando un fazzoletto dello stesso colore con la lettera L.

Per Michele Pantaleone è il segnale mandato alla mafia siciliana, di cui riteneva Calogero Vizzini il capo, affinché sia a disposizione degli americani in forza di quanto stabilito oltreoceano. Il sociologo siciliano, deputato socialista all’Ars, fonda questa sua convinzione sul risultato emerso dalla Commissione Kefauver – commissione d’inchiesta del Senato americano – sui rapporti tra politica, Marina degli Stati Uniti e mafia per prevenire nel 1942 atti di sabotaggio tedesco nel porto di New York.

La liberazione di Lucky Luciano, allora in carcere, in cambio di un’attività di vigilanza sul porto da parte della mafia, che aveva il pieno controllo del sindacato dei portuali italo-americani, erano condizioni dell’accordo. Ma da qui al fatto che quest’accordo sia poi diventato progetto di collaborazione per la conquista della Sicilia ce ne vuole. E la stessa commissione negò ogni ipotesi di questo tipo.

Pantaleone dunque ci mise del suo nella storia. Forse perché attribuiva a don Calò poteri che il capomafia non aveva. E in realtà l’amministrazione civile dell’Isola gli Alleati l’avevano programmata con l’indirect rule, lo stesso sistema di governo applicato dagli inglesi nelle colonie. Calogero Vizzini tuttavia la propria parte la fece. Era molto influente in vari settori, non ultimo quello delle cooperative cattoliche, fu sindaco di Villalba imposto dall’AMGOT, godeva addirittura fama di antifascista dopo essere stato mandato al confino dal prefetto Mori, ed è probabile che sia stata la curia di Caltanissetta ad averlo indicato agli americani come uomo in grado di tenere tranquilla la popolazione durante la loro avanzata.

Ciò non toglie che non vi siano stati, prima dello sbarco, tentativi di spionaggio e di cospirazione: degli americani nelle Little Italies; e degli inglesi attraverso prigionieri italiani disposti a collaborare come infiltrati. Tutti andati a vuoto. L’unico tentativo riuscito e degno d’interesse storico, che nulla però ebbe a che fare con la mafia, fu quello di un giovane immigrato antifascista di Melilli, Max Corvo. Che mise in moto una rete di collaborazione – di parenti e amici – in grado di fornire agli Alleati conoscenze utili sul territorio nazionale. Ma questo tentativo ha riguardato la fase successiva alla conquista della Sicilia. E si è rivelato più utile alla Resistenza e alla lotta per la liberazione dal nazifascismo.