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di Gaetano Cellura Ricorre il 4 novembre l’anniversario della morte di Yitzhak Rabin. Ucciso dopo un comizio da uno studente israeliano di destra estrema. Contrario agli accordi di pace tra israeliani e palestinesi siglati a Oslo due anni prima. Accordi che prevedevano il riconoscimento dello stato di Israele da parte dei palestinesi; e dell’OLP (diventata poi ANP) da parte degli israeliani. Accordi in virtù dei quali venne conferito il Premio Nobel per la pace agli uomini che avevano condotto otto mesi di negoziati per raggiungerli: Rabin appunto, Shimon Peres; e Arafat in rappresentanza della Palestina. Nessuno dei tre è più in vita. E i loro successori ne hanno sperperato l’eredità. Ragion per cui quello che trent’anni fa si delineava come un cammino di pace, come un modus vivendi di speranza tra due popoli in eterno conflitto è diventato invece nel Medio Oriente un lugubre tunnel senza uscita.

Il laburista Rabin era un uomo di stato come pochi se ne ricordano. Un uomo di pace. Pace che “è preferibile – disse durante il suo ultimo comizio – alla via della guerra”. Parole pronunciate da chi era stato un militare per ventisette anni. Sceso dal palco incontrò il colpo di pistola del suo assassino. Non un palestinese, ma un giovane suo connazionale. Rabin voleva costruire qualcosa di diverso. Amos Gitai, l’artista che a quest’omicidio ha dedicato gran parte del proprio lavoro, ci ricorda (Repubblica del 23 ottobre) che con Rabin un’opzione di pace è esistita. Quella che non si ritrova più, nel tempo del sonno della ragione. E della notte senza fine.