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Sessant’anni sono trascorsi dal giorno in cui alla Stazione perse la vita Vincenzo Napoli. Chi l’ha conosciuto, lo ricorda come un bel giovane, alto. Un giovane commerciante innamorato delle moto. Sindaco di Licata era il democristiano Angelo Cestelli, appena subentrato al comunista Nestore Alotto, i cui comizi ancora negli anni ottanta erano molto seguiti. E accompagnati dalle note dell’Internazionale e di Bandiera Rossa. Molti dei problemi di allora sono problemi di oggi. Irrisolti. L’acqua (sulla cui qualità e potabilità c’è ancora molto da ridire); la disoccupazione e l’emigrazione.

A causa del solito guasto al Tre Sorgenti l’acqua era mancata per un mese prima di quel 5 luglio del 1960. Del giorno in cui, per dirla con Mao, c’era molto disordine sotto il cielo e la situazione era dunque eccellente. Eccellente per scioperare. Eccellente per sparare. Si diceva: “Acqua e luce Licata non ne produce”. E ci si riferiva ai molti quartieri ancora al buio o di precaria illuminazione e alle continue interruzioni di energia elettrica. Ma l’acqua era soltanto una delle ragioni dello sciopero organizzato dal sindacato, con la giunta municipale in prima fila, i negozi e gli uffici pubblici tutti chiusi. Le altre erano la Centrale termoelettrica, promessa alla nostra città ma data a Porto Empedocle dai politicanti agrigentini; la chiusura della miniera di Passarello (avvenuta l’anno dopo) e la chiusura del Deposito Locomotive della stazione ferroviaria.

Ed è proprio alla stazione – la nostra piccola e bella stazione, allora molto viva, con la campanella argentata il cui suono annunciava l’arrivo dei treni – che la protesta di un’intera città degenera e assume le forme della rivolta e poi quelle della guerriglia urbana. I licatesi facevano la storia quel giorno, ma senza saperlo. Tant’è vero che solo quattro mesi dopo, alle elezioni comunali di novembre, quello stesso popolo in rivolta dà di nuovo i voti a quei politici (locali e agrigentini) contro cui s’era ribellata. Ed è la conclusione cui arriva Giuseppe Peritore, autore di Licata città rivoluzionaria, che di quella giornata tragica mise in luce tutte le contraddizioni. Sul piano storico e su quello politico.

Una rabbiosa sassaiola investe le forze dell’ordine; e nella piazzetta della stazione viene incendiata una Lancia Ardea della polizia. Che doveva essere vecchia di almeno sette anni se l’ultima versione, prodotta nel 1953, era stata sostituita dalla Lancia Appia. Un popolo contro lo Stato e contro chi in quel momento lo rappresenta. Uno Stato ritenuto responsabile della miseria e dei torti patiti lungo gli anni. L’acqua e il lavoro che mancavano, l’emigrazione forzata, il fatto che per molti “nun cc’era pani ni li furna”, come dice Nino Marino in una sua poesia, erano parte di questi torti. C’erano poi le malattie sociali – la tisi, il tracoma – ancora non del tutto debellate. C’era la miseria. C’erano molte strade e interi quartieri senz’asfalto. Molte case prive di servizi igienici e pavimenti. Che resero necessaria la Legge Speciale del 1963 per Licata e Palma di Montechiaro.

Il 1960 fu un anno turbolento. Con scioperi e duri scontri tra polizia e manifestanti. E con morti e feriti: cinque a Reggio Emila, uno a Catania, quattro a Palermo dove persino i vigili urbani sparavano contro la folla in rivolta. Nel paese si respirava una forte e pericolosa aria di destra. A Roma il Movimento sociale italiano sosteneva il governo Tambroni e anche a Palermo della coalizione a sostegno del presidente Majorana della Nicchiara facevano parte monarchici e neofascisti. La democrazia pareva in pericolo e si risvegliarono i ricordi della Resistenza e della guerra partigiana. Ma questi fatti, come giustamente scrive il professore Giuseppe Peritore, non ebbero relazione con quelli di Licata.

Che ci faceva Vincenzo Napoli nella baraonda della stazione? Vi ci si trovava per avventura? C’era stato trascinato senza volerlo, come capitò ad altri? O credeva nelle ragioni della protesta e le sentiva sue? Tirava sassi anche lui contro le forze dell’ordine? Anche lui ce l’aveva con i politici che tradivano le promesse? Era una delle teste calde rivoluzionarie identificate dalla polizia e costrette poi a cambiare aria per un po’ di tempo?

Nessuno ha risposto a queste domande né ha mai chiarito l’incidente che gli è costato la vita. E neppure se incidente è stato. La vicenda viene presto chiusa, archiviata. Un popolo si ribella contro lo Stato e il suo governo, le sue istituzioni, che vede come nemici, le forze dell’ordine sparano (si dice), ci sono feriti e contusi, un giovane viene colpito e muore, tutto si arresta con quella morte, lo scontro, la guerriglia, la protesta, lo sciopero, tutto, disoccupazione e torti antichi più non contano di fronte alla tragedia, e l’oblio collettivo, non la memoria, non la lezione della storia, cala come sipario sulla scena della giornata e dura per sempre. Sessant’anni dopo dobbiamo chiederci cos’è quest’oblio, cosa è stato. In tanti hanno visto, quel giorno, e non hanno parlato. Forse per la paura di sfidare la legge e la giustizia in tempi in cui molta fiducia nell’una e nell’altra non si nutriva. E la politica pure è rimasta in silenzio: mai una commemorazione, un ricordo. Sempre in silenzio. Ancor oggi in silenzio.

Ci sarebbero da chiarire molte cose, in verità. Perché in un paese che svolta a destra viene più facile sparare o riceverne l’ordine. Ci sarebbe da dare conferma storica ad alcune voci, ad alcune testimonianze private, ad alcuni personali e spesso incerti ricordi. È vero che ai rinforzi, mandati da fuori, ai rinforzi alle forze dell’ordine locali era stato dato l’ordine di caricare i dimostranti? È vero che a Sette Spade era stata incendiata una camionetta dei carabinieri o della polizia? È vero che dei candelotti furono lanciati e fatti esplodere davanti alla sede del Circolo Goliardico?

Domande che attendono risposte. Risposte importanti per la storia e per una precisa ricostruzione dei fatti. Ma di quel 5 luglio resta solo qualche breve pagina di storia locale. Nient’altro.

Gaetano Cellura