di Gaetano Cellura – Se in questo momento c’è una verità assoluta è che dal Novecento siamo definitivamente usciti. Usciti da quel sistema di relazioni internazionali, basato sulla dialettica politica, cui nella seconda parte del Secolo breve si ricorreva per risolvere le controversie tra gli stati. In generale quel sistema funzionava. E Camp David e Oslo, per quanto riguarda la questione israelopalestinese, ne sono stati il frutto (benché provvisorio). Non la forza per arrivare alla pace, ma accordi di riconoscimento delle reciproche ragioni. Era la diplomazia del dialogo.

Oggi è la forza a imporre la pace. Ma tant’è. La forza sulle macerie di Gaza. Quasi rimosse per lasciare interamente il posto alle celebrazioni mediatiche di ieri. La restituzione degli ostaggi israeliani da due anni sperata e che non può che vederci giustamente felici. E la liberazione contemporanea dei detenuti di Hamas nelle carceri dello stato di Israele come contropartita. Trump artefice di tutto e primo attore di una rappresentazione mondiale che lo celebra come uomo di pace.

Ma lo è davvero?

Risultati importanti ne ha ottenuti: il cessate il fuoco, la fine dello sterminio della popolazione di Gaza, la liberazione degli ostaggi sopravvissuti nelle carceri di Hamas dopo il pogrom del 7 ottobre. Occorre tuttavia andare al di là della rappresentazione di questi ultimi giorni e vedere ciò che vi è dietro. Giustamente, tra i commentatori, c’è chi ci ricorda il giorno in cui il presidente americano ha accelerato il processo per arrivare a una tregua: è stato il 9 settembre scorso. Quando Netanyahu ha colpito il Qatar, maggior alleato di Trump nel Medio Oriente e paese a cui gli Usa vendono armi e Hi-Tech.

Non ci spingiamo sino al punto di dire che dietro questa tregua tanto osannata ci siano solo delle logiche affaristiche. Ma che queste logiche siano state prevalenti non lo capisce soltanto chi non lo vuole capire. E del resto, i tanti nodi ancora da sciogliere sul cammino di un vero processo di pace sono lì a dimostrarlo. Come il consiglio d’amministrazione che dovrebbe gestire la ricostruzione di Gaza. Ve lo immaginate un board di tecnocrati incaricato di governare e dirimere i momenti cruciali della guerra fredda? Sarebbe stata fantapolitica per non dire fantascienza. Ma – ci piaccia o meno – questo è il mondo odierno: le ragioni della forza e la logica degli affari al posto della politica. Qualche noto osservatore considera pragmatismo tutto questo. Qualche sincero umanista si spinge oltre. E si chiede chi saprà ricostruire non solo Gaza, ma lo spirito del suo popolo, l’anima dei sopravvissuti allo sterminio.