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“Le tenebre sopraggiunte dal Mediterraneo coprirono la città odiata dal Procuratore”: così Michail Bulgakov ne Il maestro e Margherita, uno tra i primi cinque grandi romanzi. Ponzio Pilato odiava Gerusalemme, non poteva soffrire gli ebrei. E la città ricambiava questo suo odio mettendogli tra le mani la più brutta delle grane. Doveva decidere la sorte di un uomo della cui innocenza non dubitava. Quest’uomo era Gesù Cristo. E rispondeva alle domande finali, quelle da cui dipendevano la sua vita o la sua morte, con parole che il Quinto Procuratore della Giudea giudicava “sensate”. Perché allora, si chiedeva, darla vinta a quel “pagliaccio” di Caifa? Tutta sua era la colpa. E come condannare un uomo che dice: “Chi viene dalla verità ascolta la mia voce”?

Luca Doninelli, un paio d’anni fa, ha scritto su Avvenire, per i racconti di Pasqua, Il monologo di Pilato. Tardivo mea culpa dell’uomo che rappresentava a Gerusalemme la forza e la legge di Roma. Un monologo fitto di pause più espressive delle parole e degno di essere rappresentato oppure letto nei giorni di Passione.

La Verità! Chi viene dalla verità ascolta la mia voce. “Io non risposi niente, – dice Pilato – ma sentivo la pelle della mia faccia che bruciava… Non provai pietà per lui… Ebbi piuttosto la sensazione che fosse lui a provare pietà per me… Quel povero galileo sembrava conoscere alla perfezione la mente di noi romani”.

L’interrogatorio si svolge tra le colonne del Pretorio. E Duccio di Buoninsegna ne fa un racconto pittorico mirabile. Attorno si vedono i soldati. Sono soldati per nulla minacciosi. Consapevoli forse del Mistero cui assistono. Di fronte ci sono i sommi sacerdoti, che aspettano la sentenza di condanna a morte. Pilato è sul trono, cui si accede salendo due gradini, e tiene in mano lo scettro del potere terreno. Gli abiti di Pilato e di Gesù Cristo hanno gli stessi colori. Pilato indossa il mantello rosso su un abito blu. Gesù il mantello blu su un abito rosso. Chi ha saputo interpretare la pittura di Duccio dice che il blu di Pilato simboleggia il potere dell’ambiguità e il rosso del suo mantello un potere conferitogli ma che non gli appartiene. Il rosso dell’abito di Gesù simboleggia invece la regalità innata e il blu del manto il suo adeguamento umano. Nei colori capovolti degli abiti indossati c’è il grado di valore dei due poteri, divino e terreno.

Perché gli ebrei volevano lui e chiedevano la sua morte per crocifissione? Il Procuratore poggiò lo scettro sul secondo gradino e fece il gesto di lavarsi le mani. Pensava d’aver capito tutto, d’aver trovato la risposta: con quel suo messaggio di verità, la sua intelligenza, la sola forza del suo sguardo, il Nazareno “sembrava in grado di mettere allo scoperto e di abbattere le nostre menzogne che ci sono così necessarie”. Necessarie sia agli ebrei che al potere di Cesare. “Era la vittima innocente di tutto il nostro bisogno di far andare le cose come erano sempre andate”.

Con riluttanza lo consegnò a Caifa quando i giudei pronunciarono le parole fatidiche (dal Vangelo di Giovanni): “Noi abbiamo una legge, e secondo la legge deve morire perché lui ha detto di essere Figlio di Dio! … Se liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque afferma di essere re si oppone a Cesare”. E furono soprattutto queste ultime parole quelle che più intimorirono il Procuratore della Giudea: l’accusa di non fare gli interessi di Roma nella provincia sottomessa. Poi anche la scritta sulla croce contestarono: Re dei giudei. “Non è il nostro re”. Ma per Pilato era proprio quello il capo d’imputazione, il motivo della condanna a morte. “E loro: No, lui intendeva farsi re”. La pausa che segue deve essere stata la più lunga del monologo. È il momento in cui il Procuratore si accorge dell’errore, vede accrescere il suo odio. Non solo per gli ebrei, ma per se stesso. Il Nazareno intendeva farsi re? Aveva allora mandato a morte un uomo  per accontentare quella massa di ubriachi “sulla base di una presunta intenzione”? Per Doninelli, nella parte finale di questo brillante monologo, quando capisce di essere stato giocato dagli ebrei, il Procuratore prova rimorso. E ordina alla moglie di seguire il cammino dell’uomo giusto, ingiustamente condannato; di affiancarlo mentre cade sotto il peso della croce: “e, se possibile, di dargli conforto”.

Chi era veramente Ponzio Pilato? L’uomo che nel Maestro e Margherita di Bulgakov va incontro all’alba del quindicesimo giorno di Nisan con la certezza di dover condannare Gesù Cristo? O il giudice titubante dei Vangeli? Gli scarsi dati biografici raccontano l’ingloriosa fine della sua carriera. Ordinò la repressione crudele dei samaritani in rivolta, e per questo fu trasferito in Gallia. C’è chi lo descrive come licenzioso, crudele e propenso ai processi sommari. Una leggenda lo vuole nato e sepolto a Imponzo, villaggio della Carnia; e racconta che ogni persona che passava vicino alla sua tomba vi gettava per disprezzo così tanti sassi che presto si formò lì il monte di San Floriano.

Tratto da La Bottega di Spinoza – Racconti storici e civili di Gaetano Cellura