Pubblicità

di Gaetano Cellura  C’è una storia ancora da approfondire: quella della resistenza europea nei campi di sterminio nazisti. Storia cui appartiene con altre 230 partigiane Vittoria Nenni, figlia del socialista Pietro. 31635 era il numero che aveva tatuato sul braccio. E con queste parole rivolte alle compagne di prigionia si congedò dalla vita: “Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all’ultimo e non rimpiango nulla”.

Ad Auschwitz era finita non perché fosse ebrea. La rivelazione della propria nazionalità quando venne arrestata – avesse detto: “Sono italiana” – l’avrebbe salvata dalla deportazione. Ma Vittoria, o Vivà come la chiamavano in Francia, non volle abbandonare le compagne francesi che, come lei, si opponevano al nazifascismo. Volle condividerne il destino.

A Parigi, dove già si trovava la sua famiglia, era arrivata nel 1926. Dopo che i fascisti le avevano bruciata la casa e così minacciata: “Faremo fare a tuo padre la stessa fine di Matteotti”. Vittoria non aveva che 12 anni. Crescendo non le fu difficile abbracciare gli ideali del padre. Conobbe – e sposò giovanissima – Henry Daubeuf, condividendone sino alle estreme conseguenze, la militanza nella Resistenza francese. Arrestati insieme nel 1942, con l’accusa di propaganda antifrancese, il marito venne fucilato a Mont Valerièn e lei incarcerata e poi imbarcata su un lurido treno per Auschwitz. La tormentava il rimorso di non aver potuto aiutare il marito a salvarsi. Lo stesso rimorso provato da suo padre, Pietro Nenni, per non aver fatto a sua volta tutto il necessario per salvare lei.

Con Mussolini si conoscevano da lungo tempo – erano corregionali, avevano condiviso la militanza nel partito socialista e l’opposizione alla guerra di Libia. Avrebbe potuto chiedergli di intercedere per la figlia e così salvarle la vita. Ma gli pareva un atto di viltà politica. E per lui già valeva il motto celebre: politique d’abord. La politica anzitutto. Prima anche della famiglia! Non solo dell’economia, della morale e di tutto il resto cui il motto in specie alludeva. L’ultima volta si videro (o intravidero) all’isola di Ponza nell’estate del 1943 – Nenni in esilio e Mussolini prigioniero e in viaggio per La Maddalena. “Eccoci qui tutt’e due: io per volontà sua e lui per volontà del Re” – commentò Pietro Nenni. Ma La Maddalena non sarà l’ultima tappa della prigionia del Duce. Prestò verrà trasferito al Gran Sasso. E liberato dai tedeschi. Il 15 luglio dello stesso anno, con gli Alleati già sbarcati in Sicilia e con le sorti della guerra che cominciavano a prendere la strada segnata, Vivà moriva per un’infezione da tifo dopo sette mesi di lavori forzati nelle paludi.

Pietro Nenni, che aveva visto prevalere dentro di sé la politica all’amore paterno, seppe due anni dopo della fine della figlia. E fu il presidente del consiglio Alcide de Gasperi (informato dall’ambasciatore a Parigi Giuseppe Saragat) a dargli la notizia. Erano anni in cui i destini familiari e politici s’intrecciavano spesso. Diventavano dolorosamente una cosa sola. Al leader socialista rimase la politica per il resto della vita, la politica prima di tutto, ma non una tomba su cui piangere la sua terzogenita.