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Il Pd siciliano diventa un caso nazionale. Per volontà della corrente di Matteo Orfini che ne chiede il commissariamento. E sembra una richiesta ragionevole. Come si fa infatti ad approvare con larga maggioranza la relazione di un segretario regionale perdente ma eletto sia all’Ars che al Parlamento – carica quest’ultima per la quale sembra propendere? Come si fa?

A favore della relazione di Barbagallo, l’attuale segretario regionale che a rigor di logica avrebbe dovuto presentarsi dimissionario in direzione, hanno votato Crisafulli, Cracolici e Peppe Provenzano. Tre esponenti non da poco del Pd siciliano che rappresentano tra l’altro – tra Palermo, Enna e Caltanissetta – la distribuzione e la geografia del potere nel partito in Sicilia.

Nessuno dei tre pareva disposto in un primo momento a votare la relazione di Barbagallo. Poi hanno cambiato idea. E lo hanno fatto contro ogni logica. Perché un segretario che fa del Pd il terzo partito nell’Isola e non ha il buon senso di presentarsi dimissionario, fare ammenda degli errori commessi, andrebbe sfiduciato seduta stante. Nemmeno l’esempio di Letta è servito a Barbagallo per dimettersi. L’esempio del segretario nazionale che, dopo la sconfitta elettorale, lascia il Pd nonostante sia ancora il secondo partito italiano e il primo dell’opposizione. Ma noi in Sicilia abbiamo dirigenti di partito che, non solo non si candidano alla presidenza della regione lasciandone l’onere ad altre figure, rispettabilissime ma puntualmente perdenti, ma che risultano poi doppiamente eletti e con la possibilità, nel caso del riconfermato segretario Barbagallo, di fare il salto di qualità nel parlamento nazionale quando il suo compito più naturale sarebbe quello di guidare l’opposizione a Schifani in Sicilia.

Tutto questo ingenera il sospetto che la carica di segretario viene assunta come trampolino di lancio: non per metterci la faccia nella competizione elettorale, sfidare il concorrente alla presidenza della regione e fare un passo di lato se la partita va male, ma per assicurarsi un seggio. O all’Ars o al Parlamento. Come a dire: io il segretario l’ho fatto, per il partito mi sono speso, ora è giusto che il mio impegno sia ricompensato. E il pensiero corre ai tanti militanti, ai tanti dirigenti che nei circoli della periferia ci mettono anche loro la faccia, ma senza avere nulla in cambio. Spesso abituati alle sconfitte, ma fedeli sempre ai propri ideali e al senso di appartenenza a una comunità. Che forse non è più una comunità.

Poiché ne ho grande stima, mi ha molto deluso il sostegno di Peppe Provenzano alla relazione del segretario regionale. Un sostegno che, per quel poco di cui sono al corrente, non mi so spiegare. Il risultato del Pd in Sicilia è stato deludente. Capisco le divisioni interne, non solo correntizie ma anche di carattere personale. Ma le parole di Provenzano (La Sicilia del 9 ottobre) – “La somma dei rancori non è linea politica, creiamo un percorso nuovo dove tutti ci dobbiamo mettere in discussione” – sono poco convincenti. Perché avrebbe dovuto essere il segretario regionale a mettersi per primo in discussione.

Gaetano Cellura