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Della globalizzazione abbiamo capito tanto, quasi tutto. La lettura del saggio di Paolo Perulli, Nel 2050. Passaggio al mondo nuovo, può aiutarci ad averne un quadro completo e a prevederne gli scenari futuri. Inizia con la caduta del Muro di Berlino e con la successiva implosione dell’Unione Sovietica oppure qualche anno prima?

In realtà, e se davvero è così importante darle un inizio preciso, forse la globalizzazione compare sulla scena (finanziaria, economica e sociale) con l’attacco del governo Thatcher ai minatori in sciopero. Con un’azione di violenza cioè. Un’azione di violenza per imporre, da quel momento (complice la contemporanea perdita di potere del sindacato, il suo ridimensionamento), quella “pace sociale” diventata poi fondamento del neoliberismo.

Espressioni in questo caso nuove, come “pace sociale” appunto e soprattutto come “neoplebe”, quest’ultima centrale nel saggio di Perulli, sono per noi veri pugni nello stomaco. La neoplebe rappresenta in sostanza lo sgretolamento del ceto medio. O meglio: gli scarti di quello che una volta era come condizione e classe sociale. Ridotto a scarto della globalizzazione, il ceto medio costituisce ora generalmente la base politica del populismo. Si sente al penultimo posto nella scala sociale, si vede sempre più “ostaggio del circuito tecno-finanziario” e fa degli ultimi, gli immigrati che non ama, il proprio prevalente bersaglio.

Ma di chi sono, a volerle cercare con precisione, le responsabilità politiche della scomparsa del ceto medio, del suo essere diventato “nuova plebe”? La risposta il saggio Nel 2050. Passaggio al mondo nuovo la trova sì nelle politiche neoliberiste, ma le attribuisce anche a quei leader occidentali ritenuti riformisti – Blair, Clinton, Schrӧder e Obama – e che hanno invece lasciato indifesa la società di fronte al capitalismo. C’è voluta una lunga pandemia per prendere coscienza delle voragini sociali che questi leader osannati hanno aperto.

Gaetano Cellura

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