di Gaetano Cellura Era incinta di quattro mesi quando si distese a terra, nel fango, e impedì al camion militare di lasciare Ragusa. A bordo c’erano i coscritti di una guerra, stavolta considerata “giusta”. La Sicilia era stata liberata dagli Alleati e il governo, passato al loro fianco, cercava reclute per l’affondo finale al nazifascismo. Per questo, in sede storica, la rivolta dei ragusani contro le nuove cartoline rosa, la rivolta del “Non si parte” venne bollata come “separatista”. E ingiustamente.
Maria Occhipinti, la giovane che la guidava, era invece iscritta alla Camera del lavoro. E con lei le famiglie contadine che, a dicembre del 1944 e a gennaio del 1945, si opposero in armi alla chiamata di mariti e figli. Fame e povertà funestavano la Sicilia e nessuno voleva partire per una nuova guerra dopo quella in cui li aveva trascinati Mussolini appena quattro anni prima. Con la promessa che sarebbe durata poco e che ancora invece si combatteva.
Vi furono molti episodi cruenti. Tanta era la rabbia dei cittadini in rivolta e la ferocia con cui soldati e forze dell’ordine la reprimevano. Rivolta spontanea, anarchica, senza alcuna direzione politica e verso cui la stessa sinistra siciliana mostrava diffidenza. Le cifre ufficiali parlano di trentasette morti e ottantasette feriti tra militari e insorti nella provincia di Ragusa. Maria Occhipinti – che racconterà tutto in quell’autobiografia, racconto e documento di denuncia che è il suo libro Una donna di Ragusa – viene arrestata, confinata a Ustica (dove mette al mondo la figlia Marilena) e infine incarcerata a Palermo.
Nata e cresciuta nel quartiere più povero della sua città, detto “la Russia” per la presenza di tanti sovversivi, Maria veniva considerata una ragazza e una moglie di “idee eccentriche”. Inconcepibili in quel mondo chiuso e primitivo il suo elevato senso di libertà e di giustizia, i suoi comizi, la sua emancipazione. Che le procurano persino una maledizione paterna.
Autodidatta, la scrittrice ragusana cominciò a farsi una cultura leggendo di nascosto I miserabili, il romanzo di Hugo che un amico le aveva prestato (e il prete proibito). “Com’era grosso e pesante!” L’abbracciava, lo stringeva a sé. A casa abbassava le tendine, leggeva, e tutto le sembrava meraviglioso. Voleva diventare come Jean Valjean, provare “tutti i dolori del mondo”. Quel che davvero le accadrà.
Uscita dal carcere, tornata libera, non trova il marito. “Il quale – racconta – s’era sistemato con un’altra donna”. E da qui la decisione di andare via dalla Sicilia: girare il mondo (Svizzera, Marocco, Francia, America): svolgere decine di lavori: cercare anche per sua figlia “altre culture, nuove dimensioni”. E di mettersi a scrivere. Perché ai fatti di cui era stata protagonista e al sacrificio di centinaia di cittadini occorreva quel riconoscimento storico – di ribellione contro la guerra – che gli veniva negato.
Una donna di Ragusa uscì nel 1957, ed è pervaso, oltre che da un forte anelito di giustizia sociale e dalla denuncia di un sistema carcerario umiliante, anche da momenti di pura elegia: le madri che, come “madonne addolorate”, portano da mangiare ai figli detenuti; la sofferenza con cui Maria si separa dalla figlia neonata; oppure, tra i ricordi dell’adolescenza della scrittrice, la festa dei defunti. E della credenza popolare che l’accompagna. Le anime dei morti che di notte, uscite dal camposanto, passano per le strade della città. Maria le attende, con ingenua fiducia, fino alle due di notte. Fino a che nella strada si sente il carrettiere don Turiddu che lega al carro il proprio cavallo intonando una canzone siciliana. In questo modo don Turiddu dava il buongiorno ai vicini.