Ciò detto non possiamo non prendere atto di come la vita politica italiana degli ultimi venti anni sia stata dominata dalla presenza costante della magistratura che, a tutela della legalità, ha finito per condizionarne gli esiti (anche se a volte in senso opposto alle proprie iniziative giudiziarie). Ci troviamo di fronte a due possibili approcci culturali che rispecchiano due opposte filosofie dei rapporti esistenti tra la magistratura e la volontà popolare sintetizzabili in due slogan, dai contenuti diametralmente opposti, che generalmente campeggiano nelle aule dei Tribunali: “La legge è uguale per tutti” oppure “La giustizia è amministrata in nome del popolo sovrano”.
Il primo è un principio illuministico che vede la legge posta in una posizione di assoluta primazia e di conseguenza non crea distinzioni tra il comune cittadino e chi invece è investito di funzioni pubbliche. Il secondo, invocato a gran voce in questo ventennio dal leader politico più tartassato del mondo e generalmente dai seguaci del centrodestra, riafferma la centralità e primazia del popolo sovrano il quale, a fronte di indagini e perfino di condanne da parte dell’ordine giudiziario, manterrebbe una sorta di potere di redenzione o di perdono. Altrimenti il popolo non sarebbe sovra-no, ossia qualcosa al di sopra del quale non si colloca nessuno, nemmeno il potere giudiziario.
Naturalmente il primo principio è universalmente valido nella misura in cui non tollera discriminazioni tra cittadini nell’applicazione della legge. Questa è una conquista della civiltà giuridica a cui nessuno intende rinunciare. E tuttavia il secondo principio consente di temperare il primo in determinati casi eccezionali. Ipotizziamo, infatti, il peggior scenario possibile per il nostro Sindaco (infatti nel caso in cui fosse assolto, come ci auguriamo, il problema non si porrebbe e l’intera vicenda si chiuderebbe con tante scuse da parte degli organi inquirenti), ossia una sentenza di condanna per le accuse mossegli in questi giorni dalla magistratura. Ebbene, sarebbe giusto o no sottoporlo nuovamente al giudizio degli elettori? E se il popolo sovrano, pur conoscendo i suoi guai giudiziari dovesse confermargli piena fiducia, in questo conflitto tra il popolo sovrano e la magistratura chi dovrebbe avere la meglio?
Personalmente mi limito ad osservare che, a differenza delle grane giudiziarie che hanno coinvolto il precedente Sindaco, in questo caso ci troviamo dinanzi a vicende non commesse nell’esercizio delle funzioni di Sindaco e per di più riguardanti un’epoca antecedente la sua elezione. Pertanto, nel caso in cui le accuse mossegli dovessero trovare un riscontro, si tratterebbe comunque di vicende personali che non attengono al rapporto tra il Sindaco e la sua cittadinanza. Non vi sarebbe pertanto il tradimento del mandato ricevuto. E pertanto ben potrebbe il popolo sovrano, in tutta la sua insindacabile saggezza, decidere di abbuonargli eventuali scheletri nell’armadio. Tutto ciò, naturalmente, incandidabilità permettendo. Ma si sa, le leggi sull’incandidabilità costituiscono da sempre terreno di battaglie politiche in quanto rappresentano un corollario dei sopra esposti principi. Chi ritiene non ci debbano essere limiti in materia di elettorato passivo, se non nei casi di reati gravissimi, preferisce consentire al popolo di esprimere il proprio gradimento nei confronti di chiunque, anche chi è stato oggetto di condanne. Chi invece sostiene la necessità di prevedere severe cause di incandidabilità finisce per impedire al popolo di confermare la propria fiducia a un soggetto che la legge ha posto fuori dalla competizione politica.
Nessuno sa come finirà questa storia. Per il momento la vittima acclarata è la cittadinanza di Licata che dopo aver annusato un po’ di buona amministrazione si è vista scippata dal proprio Sindaco e sprofondata nella più buia incertezza del domani.
Gioacchino Amato