Ricordate Forza Italia di vent’anni fa, appena nata? C’erano sì, anche allora, personaggi impresentabili. Avvocati che avrebbero di lì a poco riempito le cronache giudiziarie e rosa. E uomini che avrebbero più avanti definito Mangano un eroe. Ma c’erano anche filosofi e uomini di cultura come Lucio Colletti e Saverio Vertone; e il meglio del liberalismo e del garantismo: Antonio Martino, Marcello Pera, Alfredo Biondi, l’avvocato Raffaele Della Valle, difensore di Enzo Tortora. Cosa potevano avere da spartire questi uomini con la Lega di allora, quella del cappio agitato alla Camera ai tempi di Tangentopoli, o con il Movimento sociale italiano con cui si allearono nel primo governo Berlusconi? C’erano sì democristiani e socialisti in libera uscita e con tanta voglia di riciclarsi, ma anche radicali e libertari veri. Molti dei quali credevano in un’Italia finalmente fuori dal cattocomunismo e dal dirigismo economico, finalmente libera dalle due “chiese” politiche che l’avevano nello stesso tempo divisa e dominata. Di sbagliato in Forza Italia, e meglio ancora lo si può affermare dopo averlo visto alla prova per ben tre volte, c’era Silvio Berlusconi: cioè il suo fondatore e padrone, ma anche l’uomo che (per tutta una serie di ragioni) le permetteva di vincere. Fosse cresciuto attorno a lui un gruppo dirigente autonomo e autorevole, in grado di non dirgli soltanto sì tutte le volte, Forza Italia poteva diventare il nucleo di quel partito liberale e riformista che all’Italia manca dai tempi della Destra storica risorgimentale. Quella che risanò le finanze dell’appena nato Stato unitario. Infelice è stata poi la scelta berlusconiana di creare il Pdl, fusione di Forza Italia con AN, l’ex Msi. Anche questo senza un processo democratico, ma attraverso il famigerato discorso del predellino. Una vita breve, fatta di scissioni e mal di pancia, di contrasti interni ora velati ora visibili. E scandita dalla fine del governo di centrodestra, sostituito dai tecnici, da una serie rovinosa di sconfitte elettorali, dalla perdita di fascino di Berlusconi presso i suoi elettori, da scandali vari, da accuse di corruzione politica a uomini e a governatori di regioni a lui vicini o a esponenti di rilievo del partito. Dal discorso del predellino ai fatti della regione Lazio si è consumata se non ancora la fine di un partito, dato sempre più in calo nei sondaggi, certamente l’incompatibilità d’una fusione. Storie diverse messe insieme inutilmente e con risultati disastrosi. Quando si sente dire da alcuni dirigenti del Pdl, e non di secondo piano, che alle elezioni bisogna correre con delle liste civiche; quando si sente Alemanno affermare, dopo l’esclusione di Carolina Varchi dal listino di Musumeci: “Non possiamo restare a dispetto dei santi”; e Fiorito dirsi certo di non trovare in carcere “gente peggiore di quella che ha frequentato in regione e nel partito”, non si tratta più di un confronto, sia pure acceso, per rimanere nel Pdl o per uscirne. Ma dell’ammissione di un eclatante fallimento politico e quindi della necessaria separazione tra ex Forza Italia e ex An. Il Laziogate può certamente affrettarla, ma non dimentichiamo che la corruzione riguarda anche gli altri partiti; e che è venuto il momento, per l’uso che ormai se ne fa, di mettere un freno, se non proprio la parola fine, al loro finanziamento pubblico.
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