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piazza_elenaUna lite assurda per un posto in chiesa durante la Messa. E degenerata in una più assurda tragedia. La Matrice di Licata era stracolma di devoti quella domenica d’Epifania del 1862. Rimasti in piedi, come tanti altri del resto, il contadino Francesco, di cui si sconosce il cognome, e Carmelo Bonfissuto, ragazzo di  diciassette anni, ne vedono uno libero sulla panca e corrono a occuparlo. Il ragazzo vi arriva per primo, ma il contadino gli dice che il posto spetta a lui: ché prima lo ha visto. Vai a metterli d’accordo, tra urti, spintoni e male parole nel bel mezzo della cerimonia religiosa. Il prete, dall’altare, e gli stessi fedeli li richiamano al silenzio: “Nella casa di Dio siete!

L’Italia Unita era stata proclamata da meno di un anno. E nel 1860 Licata aveva ricevuto la visita di Nino Bixio e di Menotti Garibaldi, ospitati nel bel palazzo Cannarella di corso Roma. Il luogotenente e il figlio di Giuseppe Garibaldi cercavano volontari da arruolare contro i Borboni. Non erano anni facili per la città quelli del nuovo Regno. Si sparava. Si saccheggiava. E nelle liti si ricorreva spesso al coltello. Furti e omicidi avvenivano con frequenza e senza essere perseguiti. Prima dello sbarco di Garibaldi, negli ultimi tempi del regime borbonico, la banda Gurrisi seminava il terrore.

D’origine maltese, Simone Gurrisi aveva trovato lavoro a Licata come usciere della Pretura. Ma ben presto, per far denaro facilmente, si dava alla delinquenza mettendo su una banda di cinquanta uomini di cui facevano parte anche i propri figli. Giunse a minacciare il parroco Urso che si era rifiutato di dargli le chiavi della Badia. Il povero parroco pare sia morto, subito dopo, per lo spavento. Gurrisi con la sua banda provò lo stesso l’assalto al convento, ma il suono delle campane da parte delle suore che chiedevano aiuto, lo fece desistere.

Fu a questo punto che alcuni licatesi, decisi a farla finita con dei malfattori impuniti, stanchi di una legge che non proteggeva gli onesti e approfittando dello sbarco dei Mille a Marsala, costituirono un comitato di salute pubblica, radunarono molti cittadini coraggiosi, li armarono, e sotto la guida del cavaliere Vincenzo Dainotto ebbero ragione della banda e riportarono l’ordine e la legge a Licata.

Alcuni banditi furono inseguiti e uccisi; altri catturati e processati sommariamente con la condanna alla fucilazione. Il capobanda Simone Gurrisi venne fucilato in piazza Elena (nella foto com’era una volta).

Questi fatti succedono due anni prima che il giovane Carmelo Bonfissuto colpisca a coltellate, una all’inguine in profondità e l’altra alla coscia, il contadino Francesco. Finita la funzione religiosa dell’Epifania, i due litiganti avevano continuato fuori dalla chiesa la discussione. Dagli urti e dagli spintoni dentro la Chiesa Madre – dal  “Susiti!, il posto è mio; no, spetta a me perché per primo mi ci sono seduto” – erano passati alla violenza vera e propria. E in presenza di tanti testimoni allibiti e incapaci di dividerli e calmarli. Il professore e giornalista Elio Di Bella, che ha letto la Sentenza 89 custodita all’Archivio di Stato di Agrigento, ha raccontato su Agigentoierieoggi questa vicenda sanguinosa dell’Epifania licatese del 1862.

A causa delle ferite ricevute il contadino muore quaranta giorni dopo. Nel 1864 la Corte d’Assise di Agrigento condanna in contumacia Carmelo Bonfissuto a sette anni di carcere. Il giovane s’era già dato alla latitanza.

Un fatto di selvaggia, inconcepibile violenza per un futile motivo. E accadeva nella città che cinque anni dopo avrebbe dato i natali a uno dei suoi figli di maggiore acume: lo scienziato Filippo Re Capriata.

Gaetano Cellura