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Era un’estate torrida, come questa. E nessuno scommetteva una lira sull’Italia campione del mondo dopo averla vista all’opera nella prima fase a gironi del Mundial spagnolo. Poi vi furono – inaspettate e incredibili – quelle quattro partite, dentro o fuori, con le nazionali più forti: Argentina, Brasile, Polonia, sino alla finale stravinta con la Germania. Quarant’anni fa, quando vincemmo al Bernabeu il nostro terzo Mondiale, la pipa era molto di moda (benché sconsigliata anche allora dai dentisti): la fumavano, tra quelli che più ricordo, il presidente Pertini, Luciano Lama e Bruno Trentin, Simenon e Brera; la fumava Enzo Bearzot, il commissario tecnico dello storico trionfo, osannato dopo tante critiche. Raramente il grande “Vecio” friulano se ne separava, come tutti i fumatori di pipa del resto.

Pochi allora sapevano che Bearzot era anche un grande lettore (libri di storia, ma anche di poesia): passione che ha trasmesso ai figli; passione che gli ha permesso di ampliare la sua cultura. La sua Nazionale migliore non è stata quella – trionfante – del 1982. Ma la nazionale di quattro anni prima, in Argentina. In quel Mundial espresse il miglior gioco, pose le basi del successo futuro. In quel Mundial ebbe il coraggio di lanciare due giovani, Cabrini e Rossi, decisivi allora e ancora di più quattro anni dopo. Paolo Rossi, reduce dalla squalifica per il calcio scommesse ma nella cui innocenza Bearzot credeva, sarebbe diventato il suo “terzo figlio”.

Di fronte a un uomo di così grande umanità, l’aspetto tecnico delle vittorie passa quasi in secondo piano. Certo, per quelle viene e sarà sempre ricordato. Ma c’è nel calcio, e credo in ogni sport di squadra, qualcos’altro che fa la storia. Ed è quanto successivamente si è saputo meglio di lui, quello che di lui non è affidato alla labilità della cronache ma all’eternità dei libri. Dei libri scritti in questi quarant’anni sul grande “Vecio”, come viene chiamato: dalla biografia ufficiale di Gigi Garanzini alla Lettera a Bearzot di Darwin Pastorin. E cioè di quanto si è saputo sul suo rapporto paterno con i giocatori, del suo considerare la squadra come una comunità di uomini. Con le sue leggi, da rispettare senza l’intervento autoritario del capo. Anche questa concezione di una squadra di calcio è il successo storico di Bearzot. Del resto, e non per ribadire luoghi comuni, nessuno è un grande allenatore se è soltanto un allenatore.

 

Gaetano Cellura