di Gaetano Cellura Poteva uscire da una porta secondaria – l’Hotel Raphael era casa sua. Volle affrontare invece a testa alta (e scoperta) la canea inferocita che lanciava monetine contro di lui. La sera del 30 aprile del 1993 si scrive una delle pagine più vergognose della storia d’Italia. Il giorno prima la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere contro il deputato Bettino Craxi richiesta dalla Procura di Milano per i reati di corruzione e ricettazione.
A Largo Febo si era riunita una folla di duecento persone (forse di meno). Il luogo in realtà è tutt’altro che largo. Molti provenivano dalla vicina Piazza Navona dove è appena finito il comizio di Achille Occhetto. E con missini e leghisti danno vita a una protesta rabbiosa come non mai. Craxi veniva visto come il simbolo della corruzione pubblica e del degenerato sistema dei partiti di governo. Ha tutti contro in quell’Italia impazzita dopo la caduta del Muro di Berlino e nel bel mezzo delle stragi e degli attentati mafiosi. Ha contro non solo il pool di Mani pulite, ma i quattro giornali che guidano l’opinione pubblica, i Tg nazionali, i nuovi poteri pronti a cavalcare la globalizzazione. Emergono tutti i segnali di una fine che non è solo personale. Con Craxi, oggetto di pubblico ludibrio, finisce la cosiddetta prima repubblica. E con la prima repubblica anche la politica. E c’è chi dice che sia proprio quanto avviene davanti al Raphael a segnare l’inizio del populismo odierno.
Il 29 aprile, giorno in cui la Camera nega l’autorizzazione a procedere contro Craxi, l’ex presidente del consiglio e leader del partito socialista continua in pratica un discorso iniziato dieci mesi prima dai banchi di Montecitorio. Quando aveva sfidato i deputati ad alzarsi e a negare che i partiti vivessero di finanziamenti irregolari o illegali. Nessuno si alzò. E la stessa cosa avvenne il giorno prima del lancio delle monetine. Craxi parlò a Montecitorio del mancato rispetto dello stato di diritto e della criminalizzazione generalizzata del sistema dei partiti di governo. “Una realtà – disse – che non si può dividere in due come una mela, tra buoni e cattivi, gli uni appena sfiorati dal sospetto, gli altri responsabili di ogni sorta di errori e nefandezze (…) Con riferimento alla vicenda che mi riguarda, i pubblici ministeri milanesi hanno pervicacemente fatto ricerca di una pretesa notizia di reato sulla quale poter costruire il teorema evidentemente già prescelto”.
Sono passati trent’anni dalle scene di largo Febo. Un tempo sufficiente per riconsiderarne la mostruosità. Intervistati dal Corsera, Gherardo Colombo dice che “in quell’occasione fu violata la dignità dell’onorevole Craxi”; e Occhetto di esserne rimasto “colpito umanamente e politicamente”. Solo che certi sentimenti bisognava manifestarli allora, non oggi.