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Prendiamone atto: il calcio romantico è un vecchio ricordo (o un ricordo di vecchi, visto che gli anni passano). E carico di passioni nate negli anni dell’infanzia, di amore per la squadra del cuore cui ci si legava per tutta la vita. Era soprattutto la radio allora, trasmettendo emozioni, la radio di Tutto il calcio minuto per minuto a farsi carico di queste passioni. E invitandoci a brindare con lo Stock 84, sponsor della trasmissione, per la vittoria della nostra squadra o a consolarci per la sua sconfitta. Poi c’era, la domenica sera, – inizio alle 19.10 – un tempo registrato di una delle partite del pomeriggio. Che vedevamo spesso, mangiando un arancino, alla Trattoria del Popolo.

Anche allora c’era gente che investiva nel pallone. Difficilmente lo faceva se non aveva passione per il calcio. E rimettendoci soldini, se era priva delle giuste competenze, nel calcio minore delle lontane province: quel calcio che, grazie a quegli investimenti, permetteva di riempire le tribune di stadi come il nostro Dino Liotta.

Non voglio dire con questo che ai presidenti di oggi manchi la passione. Ma che, pur con tutta la passione necessaria, il business è preminente nel mondo del calcio. E lo è da più di trent’anni: da quando i soldi delle Pay TV l’hanno reso uno spettacolo di cui poter godere a casa, standocene tranquillamente in poltrona. Ne è derivato lo svuotamento degli stadi, di quelli dove si giocano le partite dei campionati minori in particolare. In più, nei giovani non si riscontra la passione che era viva in quelli dei decenni precedenti. E non solo verso il calcio allo stadio, quando pagare il biglietto era un modo di contribuire alla buona salute del club della propria città, ma anche verso il calcio televisivo dei nostri giorni.

Ѐ un calcio che deve fare i conti con il presente. E il presente dice che solo poche società in Europa hanno i conti in ordine e hanno visto premiate politiche virtuose di investimenti. La maggior parte dei grandi club è – paurosamente, scandalosamente – indebitata. A giocare col fuoco ci si brucia. Non è casuale dunque che a volere la Superlega, a esserne soci fondatori siano i club più indebitati – indebitati dalla pandemia, ma anche da investimenti sbagliati. Per questi club i 3.5 miliardi garantiti subito dalla JP Morgan, che sostiene il nuovo sconvolgente progetto, e i 4 miliardi ricavabili dai diritti televisivi sono la manna del cielo. E allora, secondo questa logica speculativa, che vada alla malora il vecchio calcio. E ve ne sia uno per i ricchi e un altro per i pochi – senza interesse ed entusiasmo – che resterebbero a seguirlo. A seguire campionati nazionali senza alcun senso perché priverebbero le squadre partecipanti della spinta propulsiva a far parte l’anno dopo del club dei migliori del continente. Migliori per blasone storico, per numero di tifosi e non per essersi guadagnati sul campo il diritto di farne parte. Ne risulterebbero penalizzate, per fare un esempio, squadre come l’Atalanta. Che ha invece dimostrato, dando lezione a tutti, come con investimenti notevolmente minori, rispetto a quelli dei grandi club, si può fare un calcio di gran lunga migliore.

Lo scontro è aperto tra l’Uefa, la Fifa, e i nuovi propugnatori della Superlega. Tra minacce reciproche. Alla fine un accordo sarà necessario visto che la differenza tra la riforma della Champions, proposta dall’Uefa per i prossimi anni, e la nuova Superlega è di un miliardo. Un miliardo in più della torta da spartirsi. E visto che dividersi danneggia tutti e danneggia il calcio. Senza dimenticare che i nostri sentimenti, la nostra passione per la squadra del cuore mal si concilia con gli interessi delle grandi banche d’affari.

Gaetano Cellura