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Cinquant’anni fa pareva aprirsi per Licata un’età nuova. E di progresso e sviluppo. Nuova davvero. Per la prima volta la città conosceva la realtà della fabbrica moderna. Nel 1970 entra in attività l’ISMA, il maglificio della futura Montefibre che dà lavoro a 530 dipendenti per l’ottanta per cento donne. I modelli che l’avevano preceduta – della Montecatini o della Raffineria del porto – parevano di un’altra epoca rispetto ai moderni capannoni dell’area industriale di Licata, all’inizio dello stradone – l’unico allora – che conduceva a Campobello e a Canicattì.

Nel 1970 si svolgono le elezioni comunali. E se l’ISMA è la realtà, il progetto industriale realizzato, la fine dell’emarginazione del lavoro femminile, l’aeroporto è in quell’anno, per Licata, ancora il sogno. E tale rimane.

I comportamenti generali, ma soprattutto i comizi di quella campagna elettorale si dimostrano il termometro più preciso delle divisioni della classe politica licatese sulla vicenda dell’aeroporto. Molti esponenti della Dc non lo vogliono perché i loro capicorrente provinciali e regionali hanno deciso che non valeva la pena realizzarlo.

La vicenda resta senza una verità storica. Perché tante sono le versioni sul lento e poi definitivo abbandono dell’importante progetto: dalla mancanza di fondi pubblici alle pressioni delle imprese turistiche della Sicilia tirrenica che avevano più influenza sulla classe politica e temevano che un aeroporto nel sud dell’isola aprisse la strada a un turismo concorrente. Ma non è da sottovalutare la demagogia politica sull’argomento. Che per qualche anno funziona: e porta voti ai partiti di governo. Poi, scoperto l’inganno, diventa un boomerang per chi osa parlarne.

Doveva sorgere a Piano Romano, vicino a Torre di Gaffe. In quell’area che, negli anni avvenire, sarebbe diventata luogo e simbolo della promessa non mantenuta. Lì si tiene, alla fine del decennio 1970-80, una grande manifestazione di protesta cui partecipano lavoratori e disoccupati, i sindaci di Licata e di altri comuni della provincia, i rappresentanti dei sindacati e dei partiti, i braccianti e le cooperative che reclamavano quei terreni per farne uso agricolo, il più naturale. Lì sono presenti le operaie e gli operai dell’ex ISMA, diventata intanto Halos, già tutti in cassa integrazione, che hanno visto svanire in un decennio, insieme alla prospettiva dell’occupazione stabile, un progetto industriale figlio della fretta, dell’improvvisazione e di investimenti che obbedivano più a criteri clientelari che di reale sviluppo.

Proprio in quel 1970, con il problema dell’acqua che sempre martoriava la città, ma con le rosee prospettive aperte dal nuovo insediamento industriale e dalla possibile realizzazione dell’aeroporto, c’era già chi con lungimiranza intravedeva – e vi investiva – il vero sviluppo di Licata. Quello legato al suo mare, alle sue spiagge, alle sue coste, alla sua bellezza. Di null’altro, in effetti, aveva bisogno Licata se non di sfruttare, a fini di sviluppo turistico, le proprie naturali risorse. Non di progetti industriali effimeri e calati dall’alto: su un territorio che non ne aveva la vocazione e neppure la tradizione. Non di illusioni o di speranze vane, come l’aeroporto, quando tutt’attorno mancavano strade e ferrovie decenti. Ma i comizi, il dibattito pubblico di quella campagna elettorale di cinquant’anni fa, come degli anni successivi per la verità, di altro si occupavano. Non di puntare strategicamente sul turismo e di creare le condizioni per il suo sviluppo. Ancora oggi ci ritroviamo senza vie d’accesso (degne di questo nome: e alcune addirittura pericolanti) alle nostre spiagge e alle nostre coste.

Gaetano Cellura