di Gaetano Cellura Non esiste opera letteraria più tenebrosa della sua. Più abissale. Nemmeno Dostoevskij, di cui Kafka è fratello, scese tanto in profondità nel sottosuolo dell’esistenza. Perseguitato, posseduto e divorato dagli spettri, ansioso e insonne, eternamente straniero e in cerca della Terra Promessa, condannato senza colpa, scapolo sempre in fuga dal matrimonio, figlio in conflitto con il padre, a sua volta padre ma ignaro di esserlo, il grande narratore praghese (di cui il 3 di giugno ricorre il centenario della morte) pensava alla stanza chiusa a chiave – cantina, tana, monacale cella di clausura – come al luogo suo naturale in cui inabissarsi, trovare l’ispirazione, scrivere nel più assoluto silenzio, vivere come lo scrittore-animale, degradato a scarafaggio, ratto o cane, che voleva essere.
Dei tre romanzi di Franz Kafka – America, Il processo, Il castello – solo il primo, incompiuto come l’ultimo, lascia intravvedere momenti gioiosi, ammesso che di questi momenti si possa parlare con riferimento all’opera kafkiana. Nelle intenzioni dell’autore il romanzo doveva chiamarsi Il disperso. Fu l’amico Max Brod a dargli il titolo, America, con cui è generalmente noto. E a intitolarne anche l’ultimo capitolo: Il teatro naturale di Oklahoma. Negli ultimi mesi del 1912, mentre raccontava le avventure di Karl Rossmann, disperso nel nuovo mondo, Kafka venne travolto da una nuova ispirazione. Che lo trasportò in meno di tre settimane dagli spazi immensi di un’America soltanto immaginata, dove non era mai stato e conosciuta dai racconti degli emigrati a quelli, ridottissimi, della stanza prigione del racconto La metamorfosi. La stanza prigione in cui si muove il commesso viaggiatore Gregor Samsa, che un bel mattino si sveglia nel proprio letto trasformato in uno scarafaggio repellente.
Samsa è il personaggio che meglio riflette la claustrofilia di Kafka, la ricerca di una tana dove far vivere lo scrittore-animale che era in lui, trovare forse la pace cercata. D’altra parte, Kafka l’aveva pensato più volte e scritto nei Diari qual era la sua vita ideale: “stare con l’occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno di una cantina vasta e chiusa”. Ma la metamorfosi animalesca di Gregor Samsa non è completa. Del commesso viaggiatore che era stato conserva i sentimenti umani – ricordi, sogni, speranze. L’insetto resta una creatura divisa: è muto ma sente; persa la parola, comunica con gli occhi. La madre è la sola a vivere come una sventura la trasformazione del figlio: poi, come il resto della famiglia, si adegua al nuovo stato, quello d’aver un figlio malato che non può più guarire, la sua stanza diventata tana di un essere immondo in via di consunzione.
Per dar corso immediato a questa sua ispirazione, scaturita da un terribile momento d’angoscia, Kafka tolse energia a Il disperso, il romanzo che stava scrivendo, la più dickensiana delle sue opere. E fu un peccato. Perché Il disperso o America è il romanzo in cui Kafka ha voluto parlare di un personaggio diverso da se stesso. Sapeva di essere condannato. E ogni suo protagonista è stato il riflesso di questa sua personale condizione umana, di questo suo destino.
Male finiscono il giovane commerciante Giorgio Bendermann nel Verdetto e Josef K. nel Processo, quest’ultimo paga per una colpa inconoscibile; e nell’attesa vana di essere ricevuto dal signore del Castello, rappresentante di una metafisica autorità, rimane l’agrimensore K nel paese innevato in cui arriva. Tutti sono proiezioni, riflesso dell’angoscia mostruosa che divorava il loro autore. Solo il sedicenne Karl Rossmann è diverso. E solo lui non muore (o non sarebbe morto se l’opera fosse stata completata). Anche il suo è un mondo impervio. Anche lui viene mandato via di casa ingiustamente. Ma c’è la favola in quel mondo: il picaresco, l’avventura, gli spazi illimitati, l’aria libera non l’aria asfittica e insalubre della tana. C’è il personaggio più amato da Kafka. E forse perché Karl Rossmann non era Kafka.