Ribelle sin dai primi anni e insofferente alle imposizioni del padre, Jessie White gli gridava in faccia il proprio agnosticismo. Per questo nel villaggio vicino a Portsmouth, dove era nata, non veniva vista di buon occhio. Ma i contrasti religiosi con il padre non impedirono alla futura pasionaria garibaldina, alla giornalista inglese che sposò la causa della libertà italiana di conservare dell’infanzia un ricordo luminoso. Partita dal suo paese per completare gli studi, frequentò a Birmingham la scuola di George Dawson. Un riformatore che aveva letto gli scritti di Mazzini e parlava ai suoi allievi dei moti del ’48 e della politica repressiva del Papa.
A Parigi e a Londra si unì poi ai circoli e alle società liberali che aiutavano i patrioti italiani in esilio. E fu in questi ambienti che ebbe modo di conoscere, ammirare e seguire Giuseppe Mazzini. L’Apostolo le affidò missioni diplomatiche alla ricerca di fondi per la causa. Ma l’incontro cruciale della sua vita si verificò a metà degli anni cinquanta del XIX secolo: quando conobbe, a Nizza e poi in Sardegna, Giuseppe Garibaldi. Accompagnava Emma Roberts, che aveva stretto una relazione sentimentale con l’eroe dei due mondi. Jessie White ne rimase folgorata. E diventò sua amica e compagna di lotta. I loro incontri si schiudevano a una sempre maggiore confidenza. Garibaldi le raccontò di Anita, che ogni tanto gli mostrava le due pistole della gelosia e gli diceva che ne avrebbe scaricata una contro di lui e l’altra contro la rivale. Le parlò di Mazzini, dei suoi progetti velleitari. E del disastroso fallimento cui era destinata la spedizione di Pisacane, organizzata proprio dal patriota genovese.
Garibaldi aveva fiducia solo nel Piemonte. Faceva calcoli realistici. Il Piemonte ha “un esercito di quarantamila uomini, ed un re ambizioso – le scrisse nel 1857. – Quelli sono elementi di iniziativa e di successo”. Jessie White inviò non poche corrispondenze ai giornali inglesi, intitolate L’Italia agli italiani. Partecipò alla Spedizione dei Mille con l’incarico di organizzare un ospedale e di curare i feriti. Nel pieno della battaglia di Santa Maria, attraversò il campo per portare l’acqua al Generale assetato. Viso, capelli e gesti di fuoco: “è un angelo, è una Furia, che cos’è?… Ohimè! perché non è italiana?” Così parla di lei Giuseppe Cesare Abba (Da Quarto al Volturno – Noterelle d’ uno dei Mille).
A Varignano, vicino a La Spezia, dove Garibaldi era stato trasferito dopo i fatti dell’Aspromonte, fu tra le prime a giungere e a fasciargli le ferite ricavando le bende da un lenzuolo. Una sola volta non si mostrò d’accordo con lui. Quando decise di sostenere il piano di Mazzini e la spedizione di Pisacane a Sapri. Si rese conto troppo tardi che Garibaldi aveva ragione.
Scoperti dalla polizia i suoi contatti con Pisacane e i suoi rapporti epistolari con Mazzini, la White fu arrestata a Genova e rinchiusa in carcere. Con lei fu arrestato il futuro marito, il patriota veneto e scrittore Alberto Mario. Uno dei garibaldini migliori, “forse la più bella testa – scrive l’Abba nelle sue noterelle – che possa essere spezzata oggi da una misera palla di soldato ignorante”.
Jessie White Mario morì nel 1906, centodieci anni fa, dopo aver raccolto e pubblicato postumi (con la collaborazione di Giosuè Carducci) gli scritti politici e letterari del marito, e dopo aver dato alle stampe una monumentale biografia di Giuseppe Garibaldi. Aveva accettato la cattedra di letteratura inglese offertale dall’università di Firenze, la cui cittadinanza ne seguì il feretro (diretto a Lendinara dov’era sepolto il marito) sino alle porte della città. “Cento ragazze – scrive Antonio Spinosa – sparsero a piene mani rose rosse per le vie”.
(Tratto da Rumore di fondo, saggio di Gaetano Cellura)
Foto di Jessie White, Giuseppe Garibaldi e Alberto Mario