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Ha tanto da dirci un romanzo del 1948 su questi due anni di pandemia da  coronavirus. E magari ci fa vedere, con la forza della letteratura, molte cose che ci sono sfuggite o sulle quali non abbiamo riflettuto a sufficienza. La Peste di Camus è dunque un romanzo terribilmente profetico e drammaticamente attuale. Cambiano gravità, nome e manifestazione del morbo: ma il quadro di devastazione – umana, economica e sociale – è pressoché identico. E identico sarebbe, se venisse provato, il processo di trasmissione delle due pur diverse, molto diverse malattie: dall’animale alla persona.

Nella Peste di Camus sono i topi a generare il contagio, le pulci che dai topi passano all’uomo. Tesi che uno studio cinese appena pubblicato ritiene all’origine anche della variante Omicron. E proprio la quantità di topi morti per le strade di Orano è il primo segnale di cui preoccuparsi. Dopo i topi nel romanzo tocca all’uomo. Febbri deliranti e bubboni ascellari e inguinali. La manifestazione classica di un’epidemia cui bisogna dar nome di peste. E da quel momento non vi sono “più destini individuali,– scrive Camus – ma una storia collettiva e dei sentimenti condivisi da tutti”. I più forti: la perdita dei propri cari, seppelliti nelle fosse anonime oppure bruciati nei forni per far fronte all’alto numero di cadaveri; e la separazione e l’esilio ora che la città viene cinta da un cordone sanitario, i suoi “uomini imprigionati tra il cielo e le mura”. E quando nel romanzo dello scrittore francese leggiamo questa frase: “quella peste era la rovina del turismo”, il nostro pensiero va a tutti i disastri economici provocati, in Italia e nel mondo, dall’attuale pandemia. Attività chiuse per sempre, dipendenti licenziati, nuove e diffuse povertà. Oltreché all’emergenza continua, al modo costituzionalmente discutibile con cui viene governata, alle sirene delle ambulanze, alle quarantene obbligatorie, agli ospedali improvvisati, alla fiduciosa attesa del siero (non del tutto efficace, tanto nell’opera letteraria quanto nella realtà odierna che viviamo). E infine all’encomiabile, più o meno uguale catena di solidarietà umana nell’opera di soccorso.

Il romanzo di Camus parla all’anima più che al corpo. Vi s’incontrano e scontrano teologia e scienza (come oggi si scontrano il pensiero scientifico e il pensiero di alcuni filosofi che lo contestano). “Se un prete consulta un medico, vi è una contraddizione”. Ma si ha la consapevolezza che “non vi è isola nella peste”. Nessuno si salva da solo. Straordinarie per impeto e passione sono le due prediche di padre Paneloux. La prima è quasi di accusa. Un’accusa generale e terrorizzante lanciata dal pulpito. La peste come punizione divina per tutti i peccati “dacché gli uomini hanno una storia”. Ma tante tristi cose succedono tra la prima e la seconda predica, e tra queste la sofferta morte di un bambino cui non si poteva imputare alcun peccato, la morte di un innocente. Ed è quest’ultima morte a provocare la rivolta del dottor Rieux, il protagonista della Peste. Il medico ateo che vive l’epidemia di Orano come un’interminabile sconfitta. Nelle case, prima della peste, veniva accolto con il sorriso, la speranza; e ora con il terrore che sia venuto solo per certificare la malattia, ordinare la quarantena. Il suo scontro con il prete – il bambino, gli dice, almeno lui era innocente – è il momento decisivo del romanzo. Decisivo sino al punto di far vacillare le convinzioni del prete sulla propria fede come sul carattere punitivo del flagello. Per questo la sua seconda predica è di tutt’altro tenore. Non dice più: Voi l’avete voluto; dice: Noi l’abbiamo voluto. La morte straziante del bambino, la verità emersa dall’ingiustizia è la difficile lezione che vuol condividere con le tante persone venute in chiesa ad ascoltarlo. C’è la fede in quella lezione, “crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi”. Nonostante tutto il dolore di quel microcosmo infelice che è la città di Orano. Di fronte alla morte di un bambino innocente, per il prete, Dio ha voluto misurare la forza, la resistenza della fede di ognuno in un momento in cui era naturale perderla.

E quando la peste finisce si vive nella città quel senso di liberazione, di allegria che anche noi abbiamo vissuto dopo il primo lockdown. Ma il dottor Rieux, nella sua solitudine di uomo, di uomo che conosce tutto della vita, sapeva quanto quell’allegria dei cittadini era minacciata. Perché la peste non moriva mai: s’era solo nascosta – folgorante il finale del romanzo –: e un giorno avrebbe risvegliato i suoi topi “per mandarli a morire in una città felice”. Un’allegoria perfetta del nostro tempo. E soprattutto del nostro pianeta, della sua natura, del nostro ambiente. Che dobbiamo proteggere.

Gaetano Cellura

(Scrittura Critica Cultura)