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Parte da lontano, da molto lontano Lo Stato illegale. Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi, il libro di Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte. Due procuratori che non hanno bisogno di presentazioni. Due procuratori che hanno vissuto i fatti che raccontano. Parte questo libro dalla denuncia (allora sottovaluta, neppure presa in considerazione) di Diego Tajani. Il deputato disse alla Camera – era il 1875 – che, senza le collusioni politiche, la mafia si poteva facilmente debellare. Non ci si riusciva perché in Sicilia era “strumento di governo locale”. Parte dall’omicidio di Emanuele Notarbartolo, onesto presidente del Banco di Sicilia e prima vittima eccellente delle collusioni tra mafia e politica. Era il 1893. L’anno della repressione dei Fasci Siciliani e di maggior clamore dello scandalo della Banca Romana. E soprattutto – come anticipa lo stesso titolo – parte dalla strage di Portella della Ginestra, la prima della storia repubblicana. Era il 1947 e il Blocco del Popolo, che in larga parte rappresentava il mondo contadino, aveva appena vinto in Sicilia le elezioni regionali.

Parte da questi fatti – ormai fin troppo noti, studiati e storicamente interpretati – per condurci al processo ad Andreotti e alla sentenza che lo condanna per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso commessi fino al 1980, e dunque prescritti. Dicono gli autori di questo libro che la campagna innocentista che ne è seguita, a favore del sette volte Presidente del consiglio, è indegna di un paese civile. Andreotti è stato condannato per quei reati, ma il paese ha preferito dimenticarlo. Un tema questo che, in tempi di dibattito e di scontri sulla riforma della Prescrizione, torna prepotentemente di moda. È giusta la Prescrizione? È ingiusta la sua riforma?

Lo Stato illegale avvalora la tesi della mafia-partito. Anzi, della mafia “polipartito”, come la chiamava Dalla Chiesa. Ma quando il Superprefetto di Palermo ne parlò con Spadolini nessuno gli diede ascolto. Come al deputato Tajani un secolo prima. Dalla Chiesa intendeva dire che tutto un sistema ruotava attorno alla mafia e alla politica: un sistema fatto di appalti, finanziamenti, banche, società di riscossione, eccetera.

Non solo notizie, anche nomi in questo libro. Tanti nomi – di giudici e banchieri affaristi, di massoni e golpisti, di politici e loro ambasciatori presso i mafiosi. E poi il golpe Borghese del 1970, preparato e mai messo in atto. Vi troviamo quel che disse Buscetta sulla fine di Enrico Mattei, voluta e commissionata da Cosa Nostra americana per fare un favore ai petrolieri degli Stati Uniti. Il fallito attentato allo stadio Olimpico, tre mesi prima della vittoria elettorale di Forza Italia. Dell’Utri, Lima, Falcone e Borsellino. La trattativa con la mafia messa in piedi da alcuni alti rappresentanti dello Stato. Le lenzuola bianche di Palermo, indignazione civile di un popolo, per dire basta alla mattanza del 1992. L’arresto di Riina e la mancata perquisizione del covo per la quale nessuno ha pagato.

A noi sembra, ma possiamo sbagliarci, che il protagonista principale di questo libro di Caselli e Lo Forte sia lui, comunque: il divo Giulio. Lui salvato dalla Prescrizione, lui  che aveva Salvo Lima come capocorrente in Sicilia, lui che definì Sindona “salvatore della lira” e che mandava, per parlargli, il sottosegretario Franco Evangelisti nel negozio di giocattoli all’angolo della Quinta strada a New York, davanti al Central Park.

Siciliano di Patti (provincia di Messina), Sindona era diventato, tra Milano e l’America, il genio della finanza e poi l’uomo delle banche che facevano crac. Tessera 0501della Loggia P2, protetto dalla Dc e dalla Chiesa di Marcinkus (ricordate cosa diceva l’alto prelato? “La Chiesa non si regge sull’Avemmaria”) e dai boss americani di cui curava gli interessi, Michele Sindona morì nel carcere di Voghera due giorni dopo la sua condanna come mandante dell’omicidio (nel 1979) dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese liquidatore della Banca Privata italiana, una delle banche del famigerato faccendiere. Morì per aver bevuto caffè al cianuro: un falso tentativo di suicidio non riuscito e dunque risultatogli fatale. “Era di quelli che in Sicilia si chiamano mastica ferro (…), che denunciano, nel pallore del volto, ambizione e determinazione”– scrisse di lui Vincenzo Consolo sul Corriere della Sera.

L’ombra di Andreotti, allora ministro della difesa, c’è pure sul golpe preparato dal principe nero Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas condannato e amnistiato dopo uno dei tanti processi farsa del dopoguerra. Doveva essere eseguito la notte dell’Immacolata di cinquant’anni fa. Quando l’Italia, uscita dal “biennio rosso”, preoccupava l’America. Interessi di vario genere univano i servizi segreti, l’estrema destra, la massoneria (forze che agivano in funzione anticomunista) e la mafia. L’interesse della mafia consisteva nella promessa avuta di revisione del processo ai Rimi, condannati all’ergastolo. Da Buscetta e da Calderone abbiamo saputo della contrarietà al golpe dello stesso Buscetta, di Riina e di altri capi. Ma non di Badalamenti, che con i Rimi era imparentato. Perché all’ultimo momento il golpe non si fece resta un mistero. Ma, a prestar fede alle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, non si fece e venne “rimandato a nuova data” per la presenza della flotta dell’Unione Sovietica nel Mediterraneo.

Due personali note finali: la prima riguarda il dispiacere dei procuratori che hanno scritto questo libro (pubblicato da Laterza) per l’attuale politica antimafia, giudicata inadeguata; l’altra riguarda invece il dispiacere di quanti – un partito non meno numeroso del primo – rifiutano una ricostruzione sostanzialmente malavitosa della storia politica del nostro paese. E forse non sapremo mai quale dei due dispiaceri sia il più fondato.

Gaetano Cellura