di Gaetano Cellura Sette volumi: 3724 pagine. Alla Ricerca del Tempo Perduto è il romanzo più lungo esistente. Su come leggerlo sino alla fine, senza arrendersi prima, non mancano i suggerimenti. Tra cui quello di iniziare dai testi brevi di Proust. Molti dei quali sono riassunti di alcuni dei sette volumi. Quei testi estrapolati dall’opera in uscita che gli autori davano agli editori per pubblicizzarla. E tra i suggerimenti della professoressa Daria Galateria c’è Una giornata di lettura. Saggio di quaranta pagine sulle letture dell’infanzia scritto da Proust nel 1905. Non è l’epitome di uno dei sette volumi dell’opera-mondo del grande romanziere francese, ma già aiuta a immergersi nel sentimento proustiano del tempo perduto. Nient’affatto perduto e pure salutare. Perché ci fa attraversare – dice la “nostra” professoressa –“un doppio paesaggio mentale: quello dello scrittore e, più impervio e sconosciuto, il nostro”. Ma leggiamo Proust direttamente: “Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto”. Poi ci sono romanzi come Un amore di Swann, che possiamo leggere separatamente dal primo volume dell’opera. O testi di 150 pagine – di fatto veri romanzi compiuti, come Gelosia o come Precauzione inutile – estrapolati dallo stesso Proust rispettivamente da Sodoma e Gomorra e da La prigioniera.
Dal 1906 Marcel Proust trascorse la vita prevalentemente a letto. E a letto scriveva la sua Recherche. Usciva di casa due volte a settimana. E soltanto per non perdere il contatto con il mondo frivolo dell’aristocrazia francese di cui nel suo romanzo descrive il crepuscolo, la fine. Lui stesso ne faceva parte. E anche per questo, oltre che per il suo essere omosessuale ed ebreo, ebreo di madre, Celine lo odiava. Celine, che per quel mondo provava nausea.
Omosessualità che Proust teneva nascosta. Prendendosi il rimprovero di Gide, che della sua invece non faceva mistero e che gli rinfacciava di aver raccontato nella Recherche “i suoi amori maschili sotto fattezze femminili”. Tra i tanti protagonisti (e personaggi) dell’opera – ci vuole un taccuino per segnarli tutti – il principale è il Tempo, naturalmente. E i suoi veri paradisi: quelli “che abbiamo perduto”. Ma il suggerimento migliore per leggere la Recherche possiamo trovarlo in un uno dei suoi volumi: La prigioniera. Il suggerimento di leggerla come l’unico vero viaggio della vita: non verso altri mondi, ma come un viaggio con occhi nuovi.
Per Proust, come lui stesso pare abbia detto in un’intervista, il romanzo è geometria nello spazio e psicologia nel tempo. La sua giornata tipo era questa: sveglia alle 10,30. Mai prima. Per colazione gli venivano serviti caffè e croissant. Dalle 11 riceveva visite. In ambienti che odoravano di foglie secche incenerite: l’odore delle pasticche contro l’asma di cui soffriva. Il resto della giornata lo trascorreva scrivendo con inchiostro e calamaio. Al buio, “le persiane sempre sbarrate”. Odiava i rumori: e si racconta un fatto abbastanza curioso. Del cantiere aperto, con dei lavori in corso, vicino alla casa in cui abitava. E di Proust che, per non veder disturbato il proprio sonno del mattino, arriva a corrompere i muratori “affinché cominciassero a martellare più tardi”. Era molto ricco – delle ricchezze della madre, un’ereditiera ebrea; e dei guadagni del padre, famoso medico. Frequentava alberghi e ristoranti e giocava in borsa permettendosi di perdere. E di perdere molto. Proust era ricco, ma era malato. L’asma lo tormentava senza tregua dall’età di dodici anni, ma della morte non aveva paura. Perché un susseguirsi di morti è la vita – muoiono i genitori, gli amici;”moriamo noi stessi di continuo, diventiamo estranei a quello che siamo stati”. Le notti in cui non usciva, le trascorreva scrivendo. Fino all’alba. “Prendeva caffè per rimanere sveglio e sonniferi per dormire” – dice Giuseppe Scaraffia, studioso dell’opera proustiana. Frequentava bordelli, ma non partecipava alle maldicenze del mondo aristocratico: solo le raccoglieva per “rifonderle” nel suo romanzo. Tutto questo non giovava alla sua malferma salute.
In quanto alla sua asma, a quel tempo ancora un pianeta sconosciuto e scambiata per disturbo psicosomatico, il padre si dimostrò incapace di curarla sin dalla prima crisi; e affidò il figlio ai propri colleghi. Luminari della medicina per i quali poi Proust cominciò a non avere alcuna stima. “Le manca il respiro? Lei è troppo nervoso”. Fine. E provò a curarsi da solo, a essere medico di se stesso. Sottoponendosi a sedute pomeridiane durante le quali fa uso di composti vegetali a base di belladonna e di sigarette anti-asmatiche. Ma ne riemergeva – dice Francois-Bernard Michel, pneumologo e autore del saggio Le professeur Marcel Proust, in cui analizza le malattie dello scrittore – “sempre pallidissimo, barcollante, le pupille arrossate, dilatate, i vestiti impregnati di fumo, talvolta bruciacchiati dai grani delle polveri”. Gli effetti benefici erano di breve durata. Poi la malattia tornava come prima. L’asma, per alcuni, sembra aver avuto un riflesso sulle lunghe frasi di Proust – “il riflesso di un respiro lento”. Ma il dottor Michel non crede che malattia e stile siano collegati. Anche se “di crisi in crisi Proust sviluppa sicuramente un’ipersensibilità rispetto alla dimensione del tempo”. Il tempo della memoria sedentaria che campeggia nella Recherche, romanzo al contempo della noia e della gioia.