di Gaetano Cellura In campo era un modello di educazione, uno dei calciatori più seri della storia del pallone. Agostino Di Bartolomei, il capitano che parlava con l’arbitro tenendo sempre le mani dietro la schiena (come ricorda Gianni Mura), non riesce ad elaborare il lutto per la Coppa dei Campioni persa ai rigori con il Liverpool: arrivato in vetta al cielo, ne era caduto. E dieci anni dopo, lo stesso giorno della finale persa, si suicida con un colpo di pistola. Il 30 maggio del 1994 apre volontariamente la porta dell’eternità. La porta del mondo delle ombre.
Dice il figlio Luca, che solo a distanza di molto tempo gli perdona quel gesto: “Ѐ come se per quelli della sua età sbagliare fosse meno giustificabile rispetto a coloro che sono arrivati dopo”. Per il figlio di Agostino, intervistato dal Corriere, il padre è stato come “il potenziale fallimento che interroga tutti e di fronte al quale rimaniamo senza parole e senza fiato”. Forse c’è stato altro a spingere Di Bartolomei al suicidio. Non ci si uccide – e dopo dieci anni – per i fantasmi mai andati via di una finale persa ai rigori. Ma è significativo che Di Bartolomei proprio il giorno di quella ricorrenza decida di togliersi la vita.
Si perde in undici, ma lui deve aver avvertito più degli altri il peso del fallimento, dell’occasione mancata. La più importante della carriera. Tra la cui fine e il giorno del suicidio ci sono troppi “forse” e altrettanti “perché” per poter avere risposte certe sul gesto finale del capitano della Roma, sugli abissi d’angoscia in cui può sprofondare l’animo umano.
Insomma, il trauma della sconfitta c’entra ma forse no. Può darsi che Ago o Diba, come veniva chiamato, si aspettasse una maggiore considerazione, una volta uscitone, da quel mondo del calcio cui aveva dato molto: e non solo dal punto di vista tecnico-tattico – era centrocampista di pensiero, aveva visione di gioco e tiro formidabile – ma anche da quello dell’educazione sportiva, il cui insegnamento voleva fosse portato nelle scuole.
Si ritrovò invece, a carriera conclusa, se non solo, certamente isolato e persino estraneo al calcio che era stato suo. Viene raccontato come uomo silenzioso, di poche parole ma piene di senso (e anche di buonsenso). A noi sembrava – e sembra ancora riguardandone le foto – il ragazzo del primo banco, tutto attento e ordinato, sempre pulito e ben pettinato, la disciplina come cifra di vita. Ѐ inspiegabile come a un calciatore così forte – e di ricche doti – sia stata negata la gioia di indossare, almeno una volta, la maglia della nazionale.