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Homepage L'opinione Bocca e quel giudice della nuova Resistenza

Bocca e quel giudice della nuova Resistenza

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L’uccisione di un magistrato antimafia e un formidabile pezzo di giornalismo pubblicato da Repubblica due giorni dopo. Ѐ l’accostamento che abbiamo scelto per ricordare la tragedia di trent’anni fa, l’attentato mafioso (tra i più sofisticati) che ne fu la causa. Giorgio Bocca si chiedeva in quell’articolo cosa teneva uniti lui e Giovanni Falcone: un giornalista di passioni risorgimentali e partigiane e il magistrato che aveva portato alla sbarra i boss di Cosa nostra ottenendone la condanna. Li teneva uniti la nuova Resistenza di cui Falcone e il pool antimafia di Palermo erano l’emblema. La resistenza non più al nazifascismo ma alla mafia, nemico vecchio nuovo eterno.

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Falcone sapeva quali rischi correva. Il pentito Buscetta, la cui collaborazione era stata fondamentale per colpire Cosa nostra, svelarne l’organizzazione, glieli aveva prospettati: “Prima cercheranno di far fuori me – erano state le sue parole – poi toccherà a lei”. In realtà Falcone ha dovuto guardarsi anche da un altro nemico: quello interno. Il nemico che si annidava nel palazzo di giustizia e nella politica collusa con la mafia.

Nella sua casa valdostana Bocca guardava alla televisione quel che era rimasto dell’auto di Falcone e si chiedeva da quel luogo così lontano dalla macchia mediterranea, dal mare verde che “si frange sulle scogliere dell’aeroporto”, dal monte Pellegrino “che muta colore ad ogni mutar di vento, ad ogni passar di nubi, come un camaleonte” se l’Italia, dopo la strage di Capaci, era lo stesso paese che nel 1945 i partigiani come lui pensavano di aver restituito alla democrazia. Si chiedeva quante altre persone che aveva conosciuto nei suoi viaggi al sud – magistrati, poliziotti, politici onesti – sarebbero state ancora in vita di lì a un anno. Di tempo invero ne sarebbe passato molto di meno. Appena due mesi dopo Paolo Borsellino avrebbe fatto la stessa fine del collega e amico. In quell’Italia del 1992 nel cui parlamento sedevano politici eletti con i voti della mafia; in quell’Italia sotterrata dalle stragi mafiose e dalle inchieste giudiziarie sulla corruzione dei partiti.

Bocca aveva conosciuto Falcone a Palermo: “ma di sfuggita, in uno degli uffici della Procura, tutti porte blindate”. Lo conobbe meglio a Milano. Era il gennaio del 1983. E Falcone indagava sull’assassinio del prefetto Dalla Chiesa. Che proprio a Bocca aveva concesso l’ultima intervista prima di essere ammazzato. Il magistrato voleva sapere dal giornalista quel che Dalla Chiesa gli aveva detto privatamente. Voleva sapere dei cavalieri del lavoro di Catania. Poneva le domande e ascoltava e riascoltava le risposte con calma, per “cogliervi la parola risolutrice, la parola chiave”. Parlarono per un’ora e mezzo. Per Bocca, Falcone era un mastino cortese che non mollava mai. Alla fine gli chiese se sperava davvero di trovarli gli assassini del Prefetto. E Falcone rispose che ci avrebbe provato. Perché questa era la sua filosofia: provarci contro tutto e tutti; contro “la fatalità geografica della Sicilia”; contro il consenso per la mafia che vi si respirava. C’era, per Bocca, una ragione principale per dare a Falcone una medaglia d’oro della Resistenza. Ed era la volontà di “resistere al peggio che continua a sopravvive fra gli italiani” e che lo ha fatto andare alla morte a cinquantatré anni. Un grande magistrato e un grande giornalista. Uno dei pochi Falcone che mai si arrendevano. Uno dei pochi Bocca a saper colorare, giusto il necessario, di letteratura la cronaca.

Gaetano Cellura

 

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