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È notte ormai. E da qualche ora è cessato l’inferno di fuoco che ha scosso le campagne di Avola. Ci sono automezzi della polizia e motociclette dei braccianti dati alle fiamme e un autotreno, sforacchiato dai proiettili, messo di traverso per bloccare la strada cosparsa di sangue rappreso. Mauro De Mauro racconta quanto sia difficile l’ingresso in città. I giornalisti e i fotografi devono lasciare fuori le macchine e proseguire a piedi. Un inferno iniziato alle due del pomeriggio. È notte quando all’ospedale di Siracusa si può ascoltare il delirio di un poliziotto, colpito da un sasso durante gli scontri: “È un’infamia… Tiro al bersaglio… Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando tutti!”. A chi rivolgeva le sue deliranti parole il poliziotto ricoverato? Al proprio comandante?

Non si saprà mai. Perché tutti gli uomini in divisa sparavano all’impazzata. E dall’altra parte, dalla parte dei braccianti in sciopero arrivavano solo pietre. Le pietre dei muretti che separano agrumeti e mandorleti. Alla fine di quel 2 dicembre di cinquant’anni fa – è un lunedì – sul campo resteranno due morti e quarantotto feriti. I morti sono Giuseppe Scibilia di 47 anni e Angelo Sigona di 25. Polizia e carabinieri sparavano facilmente negli anni sessanta. Sparavano contro i lavoratori a Licata, a Palermo, ad Avola, a Battipaglia. Con due morti si chiudeva dunque quel 1968 passato alla storia per la contestazione studentesca e iniziato in Sicilia con il terremoto nel Belice.

Allora i blocchi stradali o ferroviari cui ricorrevano i lavoratori in sciopero erano l’unico modo, il più eclatante per far sentire la voce della protesta. La voce di chi ha fame e non ha pane per mangiare. Se ne fecero anche a Licata, nei primi anni settanta: alla Variante per l’Halos e alla Stazione nel 1960 quando perse la vita Vincenzo Napoli.

Ad Avola venne bloccata la Statale 115, all’altezza del bivio per il lido della città. A questa decisione estrema i braccianti arrivarono dopo aver atteso per mesi l’abolizione delle gabbie salariali nelle campagne della provincia. E dopo gli ultimi quindici giorni di proteste, assenze dai campi di lavoro, e quindi di giornate e di salario persi, di incontri disattesi con gli agrari per raggiungere un accordo di uguali regole, uguali diritti, uguale trattamento per tutti. I braccianti di Avola e dei paesi vicini non volevano essere discriminati rispetto a tutti gli altri della provincia e giustamente rivendicavano lo stesso salario e le stesse ore di lavoro. La differenza era di trecento lire. E queste chiedevano. Ma in cambio ebbero i colpi di mitra e di pistola della Celere di Catania e del battaglione mobile di Siracusa.

Nei fatti di Avola ebbero un ruolo il deputato comunista Nino Piscitello, il sindaco socialista della città Giuseppe Denaro e il segretario provinciale della federazione dei braccianti Orazio Agosta, che provarono in tutti i modi a placare le acque. Alla fine degli scontri Piscitello raccolse sul terreno due chili e mezzo di bossoli. Ma determinante in senso negativo fu il ruolo del prefetto di Siracusa D’Urso, che chiese la rimozione immediata dei blocchi: “Costi quel che costi”. Per i sindacati era evidente da quale parte stava il prefetto con quell’intimazione: dalla parte degli agrari. Le cronache del tempo lo descrivono come stanco di una vertenza sindacale senza fine. E di uno scontro con il sindaco Denaro: “Il suo dovere – gli disse – è di indossare la fascia tricolore e di raggiungere gli scioperanti per convincerli a sciogliere la manifestazione”. Ricevendone questa risposta: “Indosserò la fascia tricolore per unirmi agli scioperanti e intimare alla polizia di abbandonare il paese”.

Con i liberi braccianti di Avola, come li chiamerà Vincenzo Consolo, si era schierata tutta la città, con i suoi negozi e uffici chiusi, le sue attività ferme. Ma la volontà era  di forzare la mano in quell’anno di contestazione. “Costi quel che costi”. E a due braccianti liberi costò la vita.

Gaetano Cellura