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Nell’aula calava il silenzio appena vi entrava. Perché di soggezione (mista a rispetto, ovviamente) ne incuteva il professore Salvatore Amato, quasi sempre vestito di grigio con giacca e cravatta. Non si sentiva una mosca da quel momento: e se qualcuna ce n’era andava a rintanarsi chissà dove. Poi lui incominciava, mentre l’aria subito si riempiva del fumo delle sigarette Linda, che fumava una dietro l’altra. E se quel giorno il programma prevedeva la Divina Commedia, quanti non l’hanno avuto come docente si sono persi il fervore con cui la spiegava e commentava. Nella sovranità di quel silenzio, la sua voce avvicinava all’assoluto. Non esagero.

Come non discuto che di quella generazione di docenti, e pure delle successive, possono essercene stati altri, a Licata, che l’abbiano superato. Ma a sentire gli studenti di quel tempo – oggi tra i cinquanta e gli ottant’anni – e un po’ a sentire quelli che sono venuti dopo, fino ai nostri giorni, non si ricava (almeno a me non capita, non è capitato) di constatare un’ammirazione e un ricordo pari a quello lasciato nei suoi dal professore Amato. E dico questo, a scanso di equivoci, senza mettere in discussione la preparazione, l’impegno e la passione per l’insegnamento di altri bravi professori e professoresse di lettere. Di ieri e di oggigiorno.

C’è un motivo per cui scrivo questa nota. Ѐ il Dantedì, e nell’anno in cui del Sommo Poeta ricorre il settecentesimo della morte. In tempi normali, più fortunati di quelli che stiamo vivendo, senza il pericolo di assembramenti e di contagio, credo sarebbe stato opportuno dedicare a Licata questa importante e celebratissima ricorrenza proprio al professore Amato. Organizzare un convegno con i suoi allievi migliori, quelli che lui premiava con i voti più alti (ne conosco tanti) e che sono poi, la maggior parte, diventati medici, ingegneri, professionisti e professori di grande livello. E concentrare l’attenzione non sulle sue lezioni di letteratura italiana e latina – tutte ugualmente degne di essere ricordate – ma su quelle riguardanti proprio le tre cantiche della Divina Commedia.

Per quel che ricordo, lui saltava sempre il secondo canto dell’Inferno. E dalla Selva oscura passava al Limbo e subito a ai tre canti consecutivi degli Spiriti Magni, di Francesca da Rimini (“galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”) e di Ciacco. Ricordando sempre ai propri allievi che tutti i sesti canti dell’opera erano politici. E avevano per argomento Firenze, l’Italia (il canto di Sordello, nel Purgatorio) e l’Impero nel Paradiso. Il canto di Farinata e della città di Dite era un passaggio obbligato. Se non ricordo male, l’insigne professore non arrivava oltre i canti di Pier delle Vigne  e di Brunetto Latini. Poi, dell’Inferno, nulla più. Ed era un peccato – ma di questo ci saremmo accorti dopo – non sentirlo parlare del viaggio di Ulisse verso la Conoscenza (anzi, la “canoscenza”) né del conte Ugolino. Ma forse perché il programma scolastico era compresso e mancava il tempo per svolgerlo interamente.

Stesso discorso per il Purgatorio e per il Paradiso, dove Dante ritrova Beatrice. E ritrovarla è la vera ragione del suo viaggio ultraterreno. Nella seconda delle tre Cantiche, il professore Amato parlava di Catone e della sua meraviglia quando vede arrivare – cosa mai accaduta – qualcuno dall’inferno al purgatorio: “Son le leggi d’abisso così rotte? O è mutato in ciel nuovo consiglio che, dannati, venite alle mie grotte?” E poi di Casella, il cantore che intona la canzone “Amor che ne la mente mi ragiona”, composta da Dante dopo la morte di Beatrice; di Belacqua; di Pia de’ Tolomei, uccisa dal marito (“Ricorditi di me che son la Pia”); di Sordello da Goito e della sua celebre invettiva; di Marco Lombardo (canto XVI) che riassume la teoria del libero arbitrio: “Voi che siete qui ogni cagion recate …”, eccetera. Infine il Paradiso, la cantica della salvazione e della conoscenza. Quest’ultima, di fronte al mistero della Trinità, resta però parziale e umana: “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio”.

La lettura parcellare, fatta a scuola, credo abbia nuociuto alla Divina Commedia. Che va letta (questo consigliava Borges) innanzitutto come un racconto: senza allegorie, dantismi e saltando le parti incomprensibili (su cui tornare in un secondo momento). Ma è proprio quella lettura scolastica che più, nella vita, ci rimane impressa. Insieme al ricordo dei buoni professori.

Gaetano Cellura